GIANNI PIACENTINO
Tra pop e minimal: un’estetica industriale
Germano Celant

La lettura di un percorso artistico rende necessario delineare un quadro storico e analitico che metta in luce sia i caratteri e l’identità di quel contributo, sia la dialettica con cui esso si è manifestato nei tempi e nelle vicende dell’arte. Per ricostruire le modalità operative e l’estetica di Gianni Piacentino è pertanto necessario ripercorrerne gli esordi, alla metà degli anni Sessanta, in un’epoca in cui la reazione all’irrazionalità dell’Informale e dell’Action painting portò a una totale “spoliazione” del gesto inconscio e aperto, intriso di narcisismo e di eroismo, veicolato dai tradizionali pigmenti cromatici, per affidare il fare arte a un procedere quasi impersonale e inespressivo, perché attuato con materiali e tecniche industriali. Dimenticare se stessi per lasciarsi fagocitare da un sistema spersonalizzante, quasi sempre incentrato sui nuovi media e sui nuovi prodotti.

Era la ricerca di un abbraccio fusionale con la società dei consumi, in cui ogni individualità si attenuava sino a scomparire ed entrare in sintonia con le risorse immaginarie di un sistema di comunicazione popolare, debordante e travolgente. Era impossibile sottrarsi alla potenza divoratrice dei meccanismi della pubblicità, del fumetto, della fotografia, del cinema e della televisione, territori estranei al mondo dell’arte che erano assimilati, dissolti come unità separate, così che l’arte stessa ne dirottasse la fruizione a proprio vantaggio. Quasi una volontà di “decantare” gli aspetti della vita quotidiana e della sua banalità da attuarsi con tecniche sottili, non più affidate alla corporeità dell’azione sulla tela – diventata ora un mezzo grossolano –, ma affinate per sostituire una manualità dalle connotazioni imperfette e casuali dell’essere umano, per conferirle una misura controllata e logica.

 Nel tentativo di riappropriarsi della realtà esterna al suo autore e sebbene continuasse a mantenere la sua peculiarità estrinseca di “cosa unica”, l’arte seguiva da vicino la vita sociale. Senza avere paura di confrontarsi con gli schemi del sistema industriale e della comunicazione, li affrontava in un testa a testa per raggiungerne il nucleo segreto. Fu allora che la dimensione scenografica della Pop Art andò oltre il territorio pittorico e la tensione volumetrica pura della Minimal Art sconvolse l’organizzazione rappresentativa e mimetica della scultura, evidenziandone spietatamente l’artificiosità dell’espressione figurativa e della verosimiglianza. Da questi movimenti di matrice newyorkese arrivava la richiesta di un’essenzialità iconica e aniconica che rendeva duplice la modalità di guardare alla realtà quotidiana, passando dal virtuale al concreto della città americana, e ne confermava l’esistente per cercare di convincere il pubblico della possibilità di una realtà “altra”, di cui la quotidianità era solo un indice amorfo: a contare erano la messa in discussione e la rivisitazione. Un magico replicarsi di oggetti e di cose che superavano il messaggio intrinseco, costringendolo a manifestarsi. È questa la modalità operativa di un’azione efficace, capace di produrre metamorfosi tanto nelle immagini dei cartoons o dei billboards, quanto nella volumetria primaria delle cose. Omologarsi al fine di liberare il gratuito e il casuale di queste espressioni linguistiche per riappropriarsene e possederle; rovesciarne l’ottica per emanciparsi e trovare una propria identità che accettava la vita e il sociale, con la consapevolezza della loro complessità.

 Dovendo affrontare la posizione solitaria e autonoma di Piacentino, per sottoporre la sua indagine visiva e plastica a una lettura diversa rispetto a quella sinora condotta[1], sembra necessario mettere in discussione la sua collocazione nel territorio del minimale, posizione condizionata dalle analogie formali con le strutture primarie che all’apparenza hanno segnato l’inizio, intorno al 1965, del suo percorso artistico. Al tempo stesso è sembrato importante scardinare le polarità tra gli opposti – Pop Art e Minimal Artper trovare una terza via che permettesse di includere esperienze artistiche isolate e indipendenti da tali estremità, al fine di proporre un territorio di possibile osmosi tra popolare e primario, iconico e aniconico, manuale e industriale. Di fatto la disputa che si scatenò nei primi anni Sessanta riecheggia lo scontro tra figurativo e astratto, applicato a un concetto di immagine post informale. È una questione di contrapposizione tra copia e originale, tra rappresentazione e presentazione che implica la dipendenza e l’autonomia dell’arte. La Pop Art si dichiarava a favore della realtà dei media mentre il Minimalismo s’impegnava in una verità formale alternativa, pura ed essenziale. Tra i due poli non era possibile una via intermedia, perché artisti come Andy Warhol e Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg cercavano un nesso intimo con le notizie pubblicate sui settimanali e sui giornali oppure sulle figure legate al mondo della pubblicità e delle trasmissioni televisive: volevano affrontare la realtà del presente. Dall’altra parte Donald Judd e Dan Flavin, Carl Andre e Sol LeWitt, tendevano a evocare un’identità dell’arte basata su forme elementari e primarie. Professavano un’idea quasi platonica del costruire e del formare, aperta a un’integrazione tra concettuale invisibile e concreto visibile. Se la Pop Art si distingueva per le immagini seducenti e terrene, sensuali e carnali, la Minimal Art rifuggiva dalla chiassosità iconografica e si concentrava sugli archetipi del materiale e dell’immateriale presentati secondo una formalizzazione geometrica o volumetrica pura. Era uno scontro rumoroso e spettacolare che produceva un’affermazione eclatante delle differenze, così da non lasciare spazio ad alternative di mediazione tra le due posizioni. E invece queste esistevano, e diedero vita a una prospettiva sintetica dove la pregevolezza e l’unicità delle immagini non dipendeva più dall’estremizzazione tra realtà e prototipo, ma dalla dimensione intrinseca e concreta connessa al momento storico.

 Se si eliminano le polarità che hanno messo al centro la disputa e la conseguente sacralizzazione artistica degli estremi, e si introduce una concezione del fare artistico immerso nell’estetica di quel periodo – quale quella industriale –, allora diventa plausibile la compresenza delle posizioni opposte in quanto risultato di un clima culturale che è il prodotto della storia. In tal senso, se si stabilisce che il periodo tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi Sessanta fosse impregnato di un’estetica industriale, è possibile abolire le direttrici contrapposte e opposte per arrivare a contenere insieme – come elementi equivalenti – le diverse fenomenologie dell’attività artistica. Questo scenario può accogliere la dimensione dialettica tra processo iconico e aniconico, tra originale e copia, tra artigianale e industriale ed è inevitabile includere un’equivalenza tra arte e design, tra inutile e utile, tra creatività e mestiere. La prospettiva interpretativa e analitica di questa parificazione, privata di ogni possibile subordinazione dell’uno rispetto all’altra, apre il territorio della dignità artistica anche allo styling e alla cosmesi dell’oggetto prodotto. Anzi, spinge a riconoscere tutti quei tentativi di trascendere le opposizioni e le polarità tra pop e minimal, che a ben vedere sono il risultato di un’estremizzazione stimolata dal mercato dell’arte, indotta artificiosamente dal nuovo imperialismo culturale americano, che in quel periodo si affermava e si sostituiva[2] alla leadership francese. È altresì interessante notare che, se si sposta l’attenzione dalla centralità delle tendenze artistiche, imposte da New York, allargando il discorso a un’estetica industriale e tecnologica, che all’epoca si diffondeva in tutto il mondo occidentale, la prospettiva cambia fino ad allargarsi alle periferie dell’impero artistico newyorkese, arrivando a comprendere l’immaginario oggettuale e comunicazionale prodotto a occidente in California e a oriente in Europa. Si tratta di ricerche isolate e indipendenti che tendevano a superare la separazione tra pop e minimal e che immettevano nell’arte forme e materiali, attitudini e processi appartenenti ad ambiti che all’epoca apparivano estranei perché non collocabili – contemporaneamente – nel mondo della pittura tradizionale e in quello della produzione industriale.

 Se si riconosce che dalla fine della Seconda guerra mondiale si affermò nel mondo un’estetica industriale, connessa con la progettazione delle macchine e razionalizzata a partire dai contributi del Bauhaus, si comprende come l’alto livello di finitura e di riproduzione attuata dagli artisti pop – da Lichtenstein a Warhol – e di costruzione adottata da minimalisti come Judd e LeWitt, è il risultato di un controllo assoluto dell’ornamento figurale su tela e della costruzione dei volumi e delle articolazioni in materiali come il plexiglass, la vernice sintetica e l’acciaio. La precisione delle rifiniture e delle stesure cromatiche piatte, applicate estensivamente nei dipinti raffiguranti fumetti o illustrazioni, ma anche il ricorso ad attrezzature tecniche usate per il montaggio di volumi primari vanno ricondotti a metodi meccanici. Sono elementi di una visione comune diffusa a livello mondiale, che all’epoca diventava mitica anche perché sempre più i prodotti connessi al nuovo vivere veloce ed essenziale – dagli elettrodomestici alla cucine, dalle automobili alla navi e agli aeroplani –, evolvevano verso forme semplici e affusolate che esaltavano una vita sempre più dinamica e funzionale. S’impose la produzione meccanica, rapida e prolifica, che partendo da uno standard, trasformava la pittura (Warhol) e la scultura (Judd) in entità seriali ed era capace di mutare radicalmente i connotati degli oggetti che diventavano levigati e proporzionati, armonici ed essenziali, assumendo uno stile proprio. L’arte si adeguò a questo sentire e iniziò a progettare i suoi prodotti, la cui realizzazione poteva essere affidata ad altri tecnici ed esperti di materiali e di procedure costruttive. Pur aspirando a un’unicità e a un’irrepetibilità, lentamente ci si adattava a qualificare le differenze attraverso l’immissione di elementi innovativi minori che riflettevano modifiche e migliorie piuttosto che cambiamenti essenziali e totali. Di fatto si cominciava a pensare in termini di “carrozzeria” e di styling di modelli stabiliti.

In questa prospettiva vanno analizzati i contributi di diversi artisti che, negli anni Sessanta, tra l’Europa e gli Stati Uniti (con una prevalenza di autori californiani), lavorarono a manufatti ispirati all’immaginario dei veicoli popolari, come l’automobile e la motocicletta. È un’epoca in cui questi oggetti diventarono “prodotti culturali”, che appartenevano a un territorio separato rispetto a quello dell’arte pura, ma che iniziavano a essere accettati come testimonianza di un’estetica industriale. In altre parole, gli strumenti della mobilità acquistavano un nuovo significato che, oltre a essere funzionale, diventava anche visuale e plastico. Raggiunsero uno status intellettuale e di rispettabilità tale da diventare soggetti di racconti cinematografici – da Il sorpasso (1962) di Dino Risi a Scorpio Rising (1963) di Kenneth Anger – o manifestazione dell’evasione dalla prigionia militare o dai condizionamenti della società – da The Great Escape (1963) di John Sturges a Easy Rider (1969) di Dennis Hopper – connessi ai comportamenti di quel momento storico. Vi si narrava di viaggi e di avventure ambientati nel contesto culturale del boom economico italiano così come nell’ambito di quel desiderio di evasione e di liberazione dal sentire borghese che caratterizzava il comportamento hippy. Sono road movies compiuti in una decapottabile come la Lancia Aurelia spider o su un chopper, denominato “Capitan America”, che riflettono un nuovo sentire generazionale connesso alla diffusione, popolare e alternativa, dei mezzi di trasporto su ruote. In quegli anni, diversi artisti, o reagirono contro la cultura dell’automobile per proporne un’estetica del rottame e del residuo – come Cesar, Arman e John Chamberlain –, oppure cominciarono a introdurre nelle loro sculture l’idea di prototipo ripetibile e il concetto di struttura rigida – si pensi a LeWitt, Judd e Andre. S’iniziava a parlare di potenza motoria come per l’arte programmata e cinetica. Si discuteva di aerodinamica e di velocità rispetto alla forma, ispirata a volte ai veicoli supersonici che tentavano di superare il record della velocità su terra dei 1000 km/h. In altri casi l’attenzione si volgeva alla vernici industriali e alla stesura a spruzzo, mentre la firma veniva sostituita dal marchio.

In particolare, un’intera generazione di artisti nati intorno al 1940 iniziò, nell’area di Los Angeles, a costruire e a progettare veicoli, ma anche a guidare motociclette e automobili da corsa, come Billy Al Bengston, arrivando a pilotare aeroplani come nel caso di Doug Wheeler o James Turell. Ad attrarli era la dimensione astratta e la rottura delle norme visuali, che potevano tradursi in volumetrie elementari o in racconto figurale dell’oggetto, dando vita sia a un’osmosi tra pop e minimal sia a un’integrazione tra geometria platonica e design “volgare” (da vulgus, popolo). Era un tentativo di lavorare su un ibrido linguistico con lo scopo di ottenere un grande impatto sia formale sia narrativo. Un territorio di mezzo tra arte e design che attestasse una pratica non solo intuitiva, ma anche professionale, nella quale creatività e mestiere si intrecciavano. Un’osmosi tra passione e conoscenza, intuizione ed esperienza che nasceva dal lavoro e dal metodo di un costruire esperto e industriale. Scaturirono allora le fantasie aerodinamiche di molti artisti californiani – da Bengston a Craig Kauffman, da John McCracken a John Goode – i quali, ricorrendo all’uso di materiali industriali come resine poliesteri e plexiglass o a forme di carrozzeria, tendevano ad adeguare l’arte a un prodotto seriale, realizzabile attraverso sagome e stampi prefabbricati, in cui versare o tagliare le materie plastiche. È un periodo storico che vede fotografi e artisti – da Edward Hopper a Ed Ruscha da Garry Winogrand a John Baldessari e a Vija Celmins – protesi a testimoniare sia il mutamento urbano (parcheggi, autostrade, aeroporti), sia la visione in movimento dal parabrezza, dallo specchietto retrovisore o dal finestrino dell’aereo, che innesca conseguenze percettive e comportamentali, arrivando a includere il rischio di morte con Chris Burden (Trans-fixed, 1974).

 In Europa la visione futuristica e innovativa dei veicoli – si trattasse di mezzi terrestri, aerei o spaziali – non suscitò grande attenzione negli artisti. Si affermò piuttosto un’attitudine a far nascere un oggetto, ancora unico e sempre artigianale, che si sottraesse alla logica della serialità e del consumo estetico, per affermarsi come unicum artistico. L’intento era quello di proseguire la tradizione e realizzare prototipi provocatori tanto nell’ambito dell’arte quanto in quello del design. Questi risultati furono ottenuti con la trasmissione di una cultura artigianale, altamente specializzata, e capace di innovazioni formali e fantastiche, che difficilmente potevano essere sottoposte a una produzione di serie. Sono attestati di una material culture, che in Italia, nell’ambito del design (da Ettore Sottsass a Gaetano Pesce, da Alessandro Mendini al Gruppo Memphis, da Giorgetto Giugiaro a Pio Manzù), e in Europa e in America nel territorio dell’arte (da Salvatore Scarpitta a Pino Pascali, da Panamarenko fino al recente Tobias Rehberger), non trovando espressione nell’industria di massa o nella manifattura seriale, praticò la sua innovazione espressiva cromatica e plastica tramite il bricolage e l’assemblage, la costruzione e il rifacimento di oggetti.

È in questo clima storico di oscillazione tra arte e design, tra artigianato e industria, tra utile e inutile, tra unicità e serie, tra autonomia ed eteronimia della creazione pura[3] che si colloca il contributo di Piacentino, le cui alterità e unicità risiedono proprio nella dialettica tra le due polarità. Sin dal 1966 le sue sculture approdano a un risultato trascendente l’oggetto funzionale, sebbene quest’ultimo rimanga riconoscibile come possibile entità industriale e dalle caratteristiche decorative, perché derivate da una cultura intrisa di scienza applicata, di esperienza artigianale, di precisione meccanica e di processi strumentali di alta ingegneria.

È una manifattura che guarda sia alla tradizione produttiva di veicoli sviluppata dalla FIAT e soprattutto dai grandi carrozzieri (Pininfarina, Bertone) a Torino, città di origine dell’artista, sia allo spirito aerodinamico legato alla velocità assunto dal Futurismo che è stata la prima avanguardia internazionale in Italia. Due realtà in cui l’artista cresce studiando all’università e lavorando per una ditta produttrice di colori speciali e chimicamente molto avanzati per l’epoca, che gli permettono di trovare soluzioni cromatiche e materiche inedite, che avvicinano le sue opere a risultati industriali. L’impiego di nuovi strumenti del dipingere, come la pistola a spruzzo, diventa per Piacentino elemento centrale di una pratica pittorica che si discosta dalla gestualità e dalla matericità degli artisti informali e gestuali, da Lucio Fontana a Francis Bacon. Una distanza operativa che gli ha permesso di muoversi tra convenzione e innovazione, manualità e meccanica.

 Simili a elementi di arredo o veicoli da corsa, i suoi oggetti sono la prova della possibilità dell’arte di muoversi tra pop e minimal, tra arte e design, in parallelo alla ricerca condotta da Richard Artschwager a New York e John McCracken a Los Angeles; la possibilità di coglierne la complessità, superandone i confini e dissolvendone le contrapposizioni. È un’evoluzione verso quell’“arte abitabile”, che dà il titolo alla mostra organizzata alla Galleria Gian Enzo Sperone di Torino nel 1966, a cui parteciparono Michelangelo Pistoletto, Piero Gilardi e Piacentino. È uno spingere il fare scultura verso la produzione di un oggetto non funzionale al vivere, ma strumentale a una diversa configurazione del suo possibile uso, che è fondamentalmente solo visivo e plastico, e non utilitario. È una sorta di “sollecitazione psicosomatica” rivolta allo spettatore-consumatore per soddisfare non una funzione bensì un’informazione su una nuova e diversa identità delle cose. Questo rifiuto di qualsiasi ricostruzione di oggetti – come le armi di Pino Pascali, le macchine da corsa di Salvatore Scarpitta e l’elicottero e la mongolfiera di Panamarenko, che sono dei remake collocabili in un’area pop, avvicinabili agli environments realistici di Edward Kienholz – condusse piuttosto alla creazione di un prodotto sorprendente, costruito con le tecniche più avanzate, ricorrendo a materie sofisticate e innovative, dalle caratteristiche oggettuali uniche: un manufatto o un artefatto proposto come modello d’identità creativa e artistica che solleciti una partecipazione sia estetica sia sociale dell’oggetto-veicolo, espressione di eleganza e di competitività.

Un oggetto che sottenda un’efficienza che non è soltanto visiva e plastica ma che rimetta anche in circolazione l’immagine di soggetti come l’aereo o la motocicletta, che sono campioni della storia della cultura materiale. E che ne rievochi l’aspetto trasformativo – prodotto artistico ma anche di design – e la sua influenza sul fenomeno del progettare autonomo ed eteronomo, puro e funzionale.

Al tempo stesso si accetta l’oggetto come un modo di possibile sperimentazione antropologica, che affrontava tanto i problemi della “carrozzeria” del manufatto artistico, con le sue tecniche di fattura e di stesura cromatica, per non limitarsi solo alla pittura tradizionale, quanto la questione del meccanismo di supporto (dalla struttura al display, a terra o a muro). Piacentino – appassionato di motociclette e di sidecar – mette in discussione l’aderenza e l’interdipendenza tra la costruzione, condotta attraverso strumenti altamente tecnologici, e la componente simbolica dell’oggetto d’arte: in questo caso l’idea del veicolo come portatore di segni, che vanno dalla firma alla forma, dal colore al volume, dalla spazio interno alla tipologia dei dettagli, dalle ruote al telaio. Per questo motivo la sua ricerca si concentra su modelli sperimentali, spesso in serie ridotta, per testare tipologie e scale diverse nonché processi produttivi di altissima qualità. Il suo procedere s’ispira a un tessuto artigianale molto qualificato che lo porta a ottenere risultati sempre più sofisticati sul piano della plastica e della decorazione. Dal 1969 la sua capacità di guardare al veicolo in modo anticonvenzionale e libero da qualsiasi pregiudizio storico-stilistico lo porta da un lato alla fondazione di un oggetto di nuova tradizione, perché attivo nel territorio della scultura con la sua presenza fisica e la proiezione fantastica, dall’altro alla differenziazione formale e cromatica di un oggetto industriale collegato al movimento. Un’attitudine a esprimere il suo potenziale stilistico in rapporto dialettico agli schemi formali di un periodo storico e linguistico in cui le innovazioni – dai mobili alle strutture architettoniche, dai veicoli agli aeroplani –, producevano innovazioni estetiche quasi ogni decennio, fornendo nuovi modelli che andavano a sostituire quelli obsoleti per tecnica e canoni estetici: una visione e un comportamento da art director di una manifattura autonoma che risolve indipendentemente e individualmente i problemi strutturali e le loro soluzioni formali e materiali, avvalendosi qualche volta di falegnami e carpentieri, saldatori e tornitori, ma in generale – come uno scultore tradizionale – facendo tutto da solo in studio: un’arte non applicabile e utilizzabile che è però fondamentale per interpretare le vicende della storia del progettare, del costruire e del decorare.

Germano Celant

Se assumiamo il punto di vista di un pilota/artista appassionato della velocità che aspira a un’osmosi tra le polarità di un’iconografia comune – dal mobile al veicolo – e la sua trasformazione in una struttura elementare e primaria, pur con le sue componenti decorative, si attua uno spostamento estetico che spinge l’arte a immergersi nella realtà, mantenendo la fascinazione per le forme e per i colori. È una prospettiva innovatrice, perché afferma il miglioramento dei volumi e della “carrozzeria” della scultura in ragione della perfezione tecnica e dell’esecuzione accurata, e al contempo mette in discussione le proiezioni inconsce e le casualità gestuali, che avevano dominato fino agli anni Sessanta, con il prolungarsi dell’Informale europeo e dell’Espressionismo astratto americano. Si attua l’affermazione di una padronanza assoluta – connessa al progetto – sull’oggetto e sul prodotto artistico, che si estende anche alla fase dell’esposizione in pubblico. Come nel design, ogni momento operativo è controllato secondo uno schema di programmazione industriale nel quale il concatenamento delle varie fasi è imprescindibile al raggiungimento di un risultato concreto e definito. Mettendosi alla guida del processo artistico, simulando e sintetizzando tutte le varianti, si raggiunge la massima concentrazione visuale e plastica: un procedere che si può assimilare alla costruzione di una motocicletta o di un’automobile. È questo il tuo percorso ?

Gianni Piacentino

Voglio sempre mettermi in competizione con la realtà perché mi interessa più della valenza simbolica dell’arte. La mia idea è che un’opera possa essere confondibile con qualcosa di reale. Gli oggetti (veicoli, ali) che ho iniziato a produrre dal 1969 erano invenzioni, un omaggio a un momento storico in cui la tecnica aveva una valenza estetica incredibile. Mi ricordo che, quando la FIAT mi chiese una decorazione per la Ritmo, feci delle proposte che, a loro parere, non erano artistiche. Sembrava che fossero state eseguite da un progettista e da un decoratore di automobili. Da sempre ho l’attitudine – poi diventata una mania – a fare qualcosa che si adatti alla realtà, perché penso che l’arte sia perdente nei suoi confronti. Sono sempre più dell’idea che le più belle Ferrari siano quelle degli anni Cinquanta, disegnate dai meccanici. Avevano un’autonomia estetica: l’estetica della tecnica.

Era un periodo in cui c’era il senso dell’artigianato meccanico; ed è questa stessa logica che mi porta a costruire una cosa che è esteticamente una presenza diversa e con un proprio stile, perché non è mai totalmente realistico, ma tende sempre a connotarsi astrattamente. All’origine c’è il mio rifiuto a pensare l’arte come un ghetto, seppur privilegiato. Si può dire che ho avuto un percorso tutto concreto e personale, segnato dal piacere di fare certe cose, chiaramente non riflettenti la realtà, ma dove il reale diventa un’immagine. L’arte non è dunque uno strumento di intervento mimetico sulla realtà, è piuttosto un modo di creare un stimolo al fine di produrre una cosa reale. Per questo motivo per decenni mi è stato detto: “Questa non è arte, è design”. Non rifiuto quest’affermazione, dal momento che esiste un rapporto tra il mio lavoro e il design, specialmente nel ciclo di realizzazione (progettazione con schizzi, disegni in scala, costruzione di tipo artigianale). Tuttavia, si potrebbe dire che pratico in arte un gusto estetico che si è perso nel design. Nell’oscillare dell’interesse per questi poli, ancora oggi archivio a computer cartelle di fotografie di componenti di un motore, di un frontale di automobile, di una carrozzeria di motocicletta, di una porzione di un volante… Materiale che registro e memorizzo: la registrazione del panorama attuale e passato fatto di automobili, motociclette e aeroplani con la loro bellezza industriale e tecnica. Altri ritagli riguardano cromature di auto degli anni Trenta, oppure le griglie dei radiatori o le parti di un motore.... per me sono una ricchezza visiva. Nei primi anni erano immagini che ritagliavo e incollavo su quaderni a quadretti, oggi le prendo direttamente dal web. Sono elementi affascinanti per la storia della meccanica e della tecnica, che per me è una disciplina fondamentale. Ho sempre preferito l’estetica degli oggetti reali e ho sempre cercato di essere un professionista, nel senso industriale del termine.

Germano Celant & Gianni Piacentino

GC

Nel disegno le tappe che portano alla definizione del tuo linguaggio sono segnate da una serie di interessi e di passioni. Per ricostruirne le fasi e il senso bisogna ripercorrere la storia della tua vita, soffermandosi sulle tappe del tuo avvicinamento all’estetica industriale, all’attrazione per i colori, all’ossessione per la precisione meccanica, alla propensione per un risultato reale e non realistico. Siccome ogni artista è un essere unico, con un percorso unico, puoi tracciare il tuo sviluppo, senza tuttavia definirlo? Come nasce il tuo slancio verso i colori, da plasmare concretamente in forma di oggetto? A quale patrimonio storico e visuale ti sei appassionato, al punto da approdare da una semplice scoperta alla cognizione di regole del mestiere? E se il lavoro è ideazione, nel senso che genera pensiero e conoscenza, come sei arrivato alla costruzione di un oggetto che si distacca dalla produzione artistica dell’epoca, gli anni Sessanta, rendendolo qualitativamente diverso?

GP

Già all’età di quindici anni ero molto attratto dall’arte. Sfogliando libri, la mia attenzione di focalizzò sui dipinti di Paul Klee, di cui iniziai a classificare i colori. Coglievo un dualismo tra istinto e razionalità, ma percepivo anche che questa dicotomia poteva essere risolta integrandoli e intrecciandoli. Sommando gli elementi e forzandoli si riesce a costruire qualcosa di sorprendente; è come lo scontro tra figurativo e astratto che si è perpetuato per anni nel secondo dopoguerra: ho sempre pensato che non dovesse essere considerato come un confronto vero; pensavo piuttosto che la risposta dovesse essere trovata nella dialettica tra i due.

GC

Prima di addentrarci nella storia delle tue vicende professionali, vediamo di affrontare quel territorio impalpabile che si lega al percorso che ti ha condotto a una maturità proiettata ad affermarti come artefice di un’identità che si farà artistica. L’unicità nasce da qui; è il risultato di un viaggio che, a partire da frutti intimi e separati che diventano momenti di una narrazione, si delinea seguendo la memoria del proprio passato. La tua avventura inizia quando eri un ragazzo quindicenne e si articola subito dopo attraverso le esperienze degli studi universitari ma anche del lavoro in una fabbrica di colori e vernici. Al centro c’è il rapporto con la pittura, che sostanzialmente si focalizza sull’interesse per i colori. Ispirati a Klee, essi appaiono sin dal 1960 in Fondo Marino come stesure organizzate in strutture angolari che s’incastrano le une nelle altre. È forse un primo tentativo di affrontare la modularità di un elemento che possa svilupparsi, in tutte le sue varianti spaziali, su una superficie: un anticipo di quanto verrai realizzando dal 1965 sul piano delle permutazioni volumetriche.
Ma torniamo all’epoca in cui eri uno studente.

GP

Già da bambino, trascorrevo molto tempo a guardare le vetrine di un negozio di colori a olio vicino alla mia scuola, che si chiamava D’Adda. Passavo ore, in punta di piedi, a guardare all’interno le scatole di colore, che ho poi comprato. Quando avevo quindici anni e già mi ero interessato a Klee e a Cézanne, mi preparavo le tele e usavo tempere molto diluite. Mi ricordo che avevo il libro del Vasari e studiavo la tecnica a uovo di De Chirico. Mi piaceva sperimentare con i colori ad olio facendo ricorso al petrolio e al siccativo di Courtrait. Cominciai a montare le tele e prepararle quando ero in prima liceo classico. Professore di filosofia in un’altra sezione era Albino Galvano, un intellettuale e artista torinese di cui avevo visto le opere in varie mostre. Fu Galvano a venire a casa mia per convincere i miei genitori a lasciarmi dipingere. Dato che preparavo i dipinti in camera mia, c’era un forte odore di acquaragia e talvolta i miei genitori si arrabbiavano. Tuttavia, il supporto di mio padre non mi è mai mancato; mi disse che qualsiasi cosa avessi fatto -soprattutto quando lasciai l’Università- avrei sempre avuto il suo sostegno. Tanto che, quando a diciotto anni (allora non si era maggiorenni)potei avere un mio studio, lui firmò il contratto d’affitto. Grazie a mio padre vidi anche la prima mostra di pittura moderna,anche se non importante: era di Beppe Sesia che con i fratelli aveva una ditta di import export per cui mio padre lavorava. Erano tutti intellettuali, un altro fratello fu tra i fondatori della rivista “Il Mondo”

Riguardo il contesto culturale a Torino, già all’epoca in cui studiavo al Liceo Gioberti frequentavo la galleria La Bussola in via Po. All’università, dopo essermi iscritto a Filosofia, seguii i corsi di Estetica di Gianni Vattimo ( a cui fornivo molte informazioni sull’arte contemporanea), dove praticavo la concretezza tramite i documenti reali dell’informazione scientifica e filosofica, spesso portando nel corso testimonianze originali come il “Manifesto Blanco” (1946) di Lucio Fontana (che nessuno conosceva), così che lo studio avvenisse sui fatti e non sulle parole. Dopo aver superato i primi esami, al secondo anno ho lasciato l’università, che non trovavo aderente alla realtà.

GC

Nel 1965 avevi venti anni e i tuoi rapporti con il mondo dell’arte iniziavano a intensificarsi, anche in ragione dell’ampia diffusione dell’arte moderna a Torino tramite la Galleria Civica (aperta nel 1959) e la Promotrice delle Belle Arti, nonché le diverse gallerie – dalla Galatea di Mario Tazzoli a Notizie, diretta da Luciano Pistoi, alla Galleria Il Punto di Remo Pastori, alla cui direzione vi era Gian Enzo Sperone. Dal 1960 in città si svolsero le retrospettive di Francis Bacon e di Franz Kline, ed erano molto attivi l’Unione Culturale, il Circolo degli Artisti e la casa editrice Einaudi. Sul piano artistico molto presente era l’International Center of Aesthetic Research presieduto da Ada Minola, con la consulenza artistica di Michel Tapié, che metteva a confronto l’arte informale europea, americana e giapponese. Uno scenario ricco e intenso che, dopo le diverse mostre su Wols, Jackson Pollock, Pinot Gallizio, Alberto Burri, Lucio Fontana e Jean Fautrier, spesso seguite e curate da Carla Lonzi, fu terreno di germinazione di una nuova generazione di artisti, da Pistoletto a Paolini. Come ti rapportavi a questo scenario?

GP

All’epoca del liceo frequentavo già il mondo dell’arte. Andavo nello studio di Mondino e nella libreria Stampatori, dove si facevano mostre. Andavo nella biblioteca dell’USIS, dove sfogliavo le riviste, tra cui “Art in America”, ma leggevo anche libri sull’arte moderna e su Picasso. Visitavo le mostre della Galleria Il Punto e qui vidi la prima esposizione in Italia di Roy Lichtenstein, quando Gian Enzo Sperone ne era direttore. Mi colpì molto per la freddezza della sua pittura. Nella galleria Notizie ho conosciuto l’Action Painting americana. Sono diventato amico di Paolini e di Pistoi, nella cui galleria contribuivo ai montaggi, nell’allestimento delle  mostre di Magritte e Twombly. Già allora ero esperto di chiodi e viti, di tasselli. Nel 1964 ho visitato la Collezione Panza di Biumo, a Varese, dove ho visto i lavori di Robert Rauschenberg che mi hanno molto colpito.

Nello stesso anno ho partecipato a discussioni sul rapporto tra la musica e il pubblico tenute da Luigi Nono, con il quale ho avuto un diverbio, ricevendo il sostegno del poeta Edoardo Sanguineti. Da Gian Enzo Sperone ho visto la mostra sui “Plexiglass” di Pistoletto. Avevo scambi d’idee con Aldo Mondino... insomma era un periodo in cui si teorizzava molto, perché eravamo talmente pochi che si stava insieme per essere più forti. Nel 1965 – era Pasqua – andai a Milano insieme a Pistoi, Paolini, Anna Piva e Corrado Levi per andare a incontrare Fontana, che nel prato di corso Monforte ci mostrò enormi tele argento, una delle quali venne acquistata da Levi. In generale le mostre in musei e gallerie mi annoiavano, mentre provavo un profondo rispetto per l’arte moderna, da Paul Cézanne a Paul Gauguin.

GC

La frequentazione di Paolini – nel cui studio subentrasti tu, una volta che lui lo lasciò – è presente nelle tue prime ricerche, quando iniziasti ad attaccare su una tela normale un foglio di carta colorata, incollandola e lasciando i bordi bianchi; un riflesso dell’influenza dei lavori realizzati da Paolini tra 1962 e 1963. I tuoi telai del 1965, tuttavia, si distanziano immediatamente dalla sua attitudine a un’analisi pre-concettuale dei materiali dell’arte – dal foglio millimetrato al campionario di colori, dalle riproduzioni alla masonite, dal tubetto di colore al retro della tela. Il tuo discorso s’indirizza piuttosto verso la coincidenza tra colore e superficie, che diventano un unico oggetto che va messo in luce oppure sagomato, come documentano alcune opere andate distrutte.

 

GP

All’inizio fissavo la tela con i punti metallici perché i chiodi mi davano fastidio. Anzi, chiedevo a Paolini: “Perché metti i chiodi?”, pur intuendo che era un metodo tradizionale adatto al suo discorso sulla pittura e alle sue manifestazioni materiche. Poi, dopo i punti cominciai montare la  tela, ripiegandola sul retro. Mi serviva la tela come oggetto. L’attenzione al retro e alla struttura di legno del telaio è nata montando un quadro. Invece di fare un oggetto intelaiato, vidi la crociera e iniziai a colorare le parti del telaio in diversi colori (D.S.O., 1965). Nei vecchi telai l’incastro e il tipo di montaggio erano poco precisi tanto che negli anni seguenti ho dovuto rinforzare gli incastri con del silicone . Come il verso, per me anche il retro necessitava di una dignità; da qui l’idea di abbandonare il telaio e fare da solo i singoli pezzi. Il tutto aveva una sua semplice logica, così sono nati i pali in verticale.

 

GC

La componente tecnica è fondamentale per comprendere il tuo procedere, che riguarda sia la stesura del colore sia la costruzione dell’elemento su cui questo si stratifica. Partivi da un progetto e poi lo concretizzavi direttamente? Oppure ti avvalevi dell’aiuto di un tecnico?

 

GP

Facevo dei disegni sulle misure massime che, in genere, riguardavano l’entrata e l’uscita degli elementi dalle porte del mio studio. L’intento era di rapportarle al luogo di vita, così da camminarci dentro. In genere il palo era di dimensioni di 8 x 8, 9 x 9, 10 x10 centimetri e l’altezza era 2,97 oppure 2, 98 oppure 3 metri; mi piaceva che fossero leggermente diversi tra loro. Una volta definito il progetto, andavo dal falegname che li costruiva in legno di obeche, che è tenero, senza nervature e non si imbarca. Quand’era costruito, cominciava la laccatura. La prima l’ho fatta a pennello, poi ho comprato una pistola a spruzzo elettrica perché il compressore costava troppo. Prima ho cominciato con il fondo alla nitrocellulosa, poi con il poliestere che è molto resistente e impregna bene il legno. La verniciatura richiede almeno da 8 a 10 fasi tra protezione, rasatura, stuccatura, lisciatura e colorazione vera e propria, a spruzzo.

 

GC

Lo stimolo a liberarsi dello spontaneismo, attuato a mano con il dripping o altra tecnica gestuale, ebbe come conseguenza, nel 1965, il taglio del cordone ombelicale rappresentato dal pennello sulla tela. L’avvento della pistola a spruzzo permise questo distacco, che è anche segnico, nel senso di un colore diffuso e omogeneo, e non è più segnico, nel senso della macchia o del grumo, della traccia lineare o superficiale. Con Ad Reihnardt iniziava l’attuazione di una rarefazione e di un’attenzione per l’invisibilità, così che il colore arrivasse a aderire totalmente alla tela, impregnandola. Poi questo processo pittorico si diffuse da costa a costa, da Robert Mangold agli encasements di Douglas Wheeler, pervenendo ai segni “meanless” di Walter De Maria a quelli apparentemente indifferenti, perché banali, ma fondanti per la storia del fare arte (dalla matita al supporto ligneo) di Paolini: un tendere verso l’aniconico per cercare di pervenire “all’invisibile e al meno corporeo”. Il messaggio era indirizzato ai supporti come tela e telaio, su cui non era necessario far apparire alcun segno o calligrafia, perché era sufficiente presentarli nel loro stato grezzo.

La sequenza di tele e l’incastro centrifugo-centripeto dei telai che costruisci nel 1965 mettono insieme il colore assoluto e rarefatto di Reinhardt con le entità elementari e basilari di Paolini.    

GP

Innanzitutto i miei colori non sono mai primari, perché usarli sarebbe troppo banale, ma sono frutto dell’invenzione. Inoltre le strutture che li veicolano non sono mai standard, trovate sul mercato. I colori dei miei lavori sono sempre diversi, perché nascono da impasti difficilmente memorizzabili. È un fattore molto importante per me. È quel quid che mantiene vivo il fascino dell’opera. Ci deve essere sempre qualcosa che, non essendo memorizzabile, ti sorprende tutte le volte che lo guardi. Riguardo all’uso della pistola a spruzzo, molte invenzioni d’arte sono legate sia alla scoperta di nuove tecniche di ripresa e di emissione visiva – dalla fotografia alla serigrafia, dal proiettore alla videocamera – sia a innovazioni relative ai materiali, come i colori fosforescenti e alla nitro, il plexiglass e il poliuretano, il laminato plastico e il latex. Per mantenermi feci vari mestieri, tra cui, nel 1967-1968, lavorare una mezza giornata come consulente della Plastocoat, una ditta di colori di proprietà del padre di un mio amico. La fabbrica produceva vernici speciali, come gli smalti ad acqua per la Marina Militare o le prime resine epossidiche per pavimenti. Lavorando in quell’ambiente scoprii i colori madreperlati e cangianti: un patrimonio di conoscenza che mi sarebbe servito moltissimo. Qui imparai la chimica delle vernici, specialmente per usarle su motociclette. Qualche tempo dopo feci un restauro con colore metallizzato e sfumato. Mi facevo i campionari: per esempio una cartella ideale di colori  di 300 tinte dal rosa al grigio. Imparai la gradazione e il timbro e nel 1967 scoprii i pigmenti la madreperla; nessuno sapeva che cosa fosse. Poi realizzai il metallizzato opaco, mescolando i colori. Sarebbe diventato di moda venticinque anni dopo.

 

GC

Era un periodo in cui la necessità di far coincidere pigmento e struttura per arrivare a un oggetto compatto portava a un’attenzione massima per materiali autonomi e flessibili, che non appartenevano alla tradizione. Sul versante costruttivo, in particolare, la scelta rifletteva una connotazione quasi sessuale. Nel 1965 Eva Hesse, Louise Bourgeois e Yayoi Kusama, per produrre sculture, legate al tardo Surrealismo, ricorrevano alla stoffa e al latex, così da sollecitare reazioni sensuali, seduttive e repulsive. Si tratta di oggetti di rottura rispetto alla rigidità e alla geometria inflessibili della scultura minimal. Si avvicinano piuttosto alle opere morbide e sensuali di Oldenburg; tendono a comportarsi come entità morbide e viventi. Dall’altra parte tanto gli artefatti postminimal – da Frank Stella a Artschwager fino a McCracken e ai californiani – quanto “gli oggetti in meno” di Pistoletto, che l’artista realizzò dopo i plexiglass, sembrano più orientati a indagare la forma libera del dipinto e della cosa, e a concentrarsi sulla loro epidermide.

In parallelo si sviluppa il tuo progetto di un materialismo cromatico autonomo e assoluto, privo di qualsiasi ambiguità e simbologia. Gli elementi arrivano a possedere un’individualità cristallina, con la particolarità di non seguire un processo matematico o concettuale, ma un fare indeterminato: quello della creazione personale e intuitiva dei colori. Ciò che sembra interessarti è una realtà fisica riconoscibile, tanto da avvicinarla gradatamente all’oggetto d’uso (dal palo al portale, dalla finestra al tavolo), connotata però da una complessità tecnica e industriale che ne annuncia l’estrema sensibilità contemporanea.

 

GP

L’idea di colore nasceva dai cataloghi, ma tendevo a uscire dagli standard, ricorrendo a mescolanze varie. Facendomi i colori sono passato a far costruire i telai su misura. Per questo le tele di Sp- Azio(ne) - 5 (1965) sono diverse. Hanno un’individualità cromatica e perimetrale. Lo stesso succede in Zorba U.R. (1965) con le varianti dei profili e dei volumi; la parte tridimensionale è costruito in masonite, con la tela incollata sopra. In questi lavori anche il retro è verniciato, per cui è già implicita l’equivalenza tra recto e verso, che è scultorea. In True Trompe l’Oeil Oil (1965) l’ombra è dipinta a olio per dare maggiore senso della realtà. Da lì sono pervenuto alla tridimensionaltà e all’autonomia del palo che si avvicina all’idea della scultura che, in verticale, sta in piedi (standing sculpture). In seguito sono passato alla T capovolta, alla X e all’angolare. L’intenzione è creare qualcosa di sospeso nello spazio, tanto che il paletto finisce nell’angolo della stanza, s’innesta nell’architettura. Il paletto angolare l’ho messo anche su una finestra vuota. La costruzione di figure geometriche che invadono lo spazio mi ha portato nel 1966 a progettare un tavolo, privandolo della sua funzione attraverso le dimensioni: dal troppo stretto al troppo largo: Brown-Red (Met) Table Sculpture II (1967) e Matt Metal Brown-Purple Big Table Sculpture (1967-1968). Non è pienamente funzionale, piuttosto si afferma in quanto idea di tavolo.

 

GC

Via via che l’oggetto si articola nello spazio, anche la tecnica costruttiva muta in relazione all’equilibrio e all’ancoraggio a terra, al peso e agli incastri per tenerlo in piedi.

 

GP

Il passaggio dai quadri a parete a strutture autoportanti a pavimento comporta modifiche costruttive, anche se gli oggetti devono risultare sempre molto leggeri. L’esperienza e i consigli del falegname mi hanno lentamente portato a operare variazioni formali di spessore e di forma. È così che sono arrivato a Metalloid Violet_Blue Panel (1966), un pannello colorato che è stato esposto nella mia prima collettiva al Centro San Fedele di Milano. Poi è seguita la lunetta di Cool Light-Blue Lunette (1966), che nasceva da un fatto reale: l’aver visto delle fotografie delle previsioni del tempo negli Stati Uniti che mostravano una foto dal satellite con l’orizzonte della terra leggermente curvato. Richiama anche l’idea di uno zoccolo a parete.

 

GC

Con l’introduzione di un colore individuale e di una contestualizzazione ambientale ti orientavi verso uno spazio che equivaleva a un grembo abitativo. Non astratto, né concettuale o geometrico, come quello che si lega alle proposte riduttive e impregnate di luce dell’arte programmata e cinetica (da Raphael Soto a Gianni Colombo), o che trovava enunciazione di spirito orientale, incentrato sul nulla e sull’assenza (da Dan Flavin a Robert Irwin). Si tratta piuttosto un’estensione fisica dello spazio da vivere rispetto ai sensi. Un ambiente che si scinde in unità autonome, ciascuna con le sue caratteristiche di angolo o portale, di tavolo o cavalletto. Uno spazio “vissuto” che si sostanzia in una diversa maniera, quella artistica: nel giugno-luglio 1966 si tiene la mostra “Arte Abitabile”, presso la Galleria Gian Enzo Sperone, che vede la tua presenza, insieme a Gilardi e Pistoletto.

 

GP

Con Sperone, e gli altri che frequentavo quotidianamente, dopo avere avuto notizia della mostra “Electric Art” alla Sonnabend Gallery di Parigi (maggio-giugno 1966), che includeva i tubi fluorescenti di Flavin, pensammo di fare un’esposizione con un’arte più concreta, più vera. La scelta si orientò in varie dirazioni : verso la scultura antica: Pistoletto con Scultura Lignea (1965-1966), circondata dal plexiglass arancione, e Lampada a Mercurio (1965), rivestita di materiale specchiante; Piero Gilardi con la torretta fatta di tubi Dalmine e un tappeto-natura; io con il tondo Dull-Amaranth Disk (1966) e l’angolo Blue-Purple Big L (1966), che corrispondeva esattamente alla misura da un angolo al centro della Galleria Sperone. Misuravo lo spazio con la L che dal centro della stanza saliva ai 3 metri, mentre il disco sottintendeva l’idea di un punto senza dimensione.

Il progetto scaturisce in rapporto al vivere dentro uno spazio di specifiche dimensioni. Quando si tratta dello spazio in esterno tutto cambia, perché non si hanno riferimenti; quando sono stato invitato a pensare installazioni per contesti urbani, dai parchi alla metropolitana, ho sempre proposto opere di enormi dimensioni, sfortunatamente mai realizzate. Tuttavia la mia posizione non voleva essere di rottura. l’arte per me ha sempre fatto parte del bello, della decorazione anche estrema. “Arte Abitabile” è stata per noi un evento importante perché ci ha messo di fronte ad una situazione al limite, liberatoria. Non si portava l’attenzione ai confini dell’arte, ma all’apertura. All’epoca si discuteva molto, con Paolini, Pistoletto, Gilardi e Mondino: ognuno voleva fare un lavoro nuovo.

 

GC

L’attrazione verso uno spazio della vita porta a una sua potenziale funzionalità, in cui le caratteristiche architettoniche, di uscita e d’ingresso (la porta), di apertura all’esterno (la finestra), e gli strumenti della quotidianità (il tavolo), sono fondamentali. Anche la forma e la loro colorazione sono sottoposte a un condizionamento soggettivo, di scala, di dimensioni e d’impasto cromatico.

 

GP

Succede quando ti accorgi che le cose che al tuo sguardo hanno delle forme dignitose possono diventare un’opera. Mi piace studiare oggetti comuni e negarne la funzione per tramutarli in entità lineari e di superficie destinate solo a essere osservate. Ad esempio il tavolo è un piano su quattro pali: una somma di elementi. Allora scatta la concretezza, seppur giocata sulle diverse dimensioni, così che non possa essere usato comodamente.

 

GC

L’approccio alla costruzione come avviene? Tramite disegni o schizzi?

 

GP

Il disegno è il primo progetto, e lo utilizzo sia all’inizio sia alla fine come riepilogo. È il momento dell’invenzione, dal disegno esecutivo all’idea della variazione del colore. Rispetto agli anni Sessanta, il disegno esecutivo si è perfezionato grazie alle conoscenze che ho acquisito dagli artigiani e da coloro con cui lavoravo. Adesso si usa il computer e le modifiche sono più rapide, mentre le variazioni aumentano. Il sistema è identico, tanto che i miei vecchi disegni non sono tanto diversi da quelli di oggi. Gli ultimi sono solo più tecnici e precisi.

Quando ho iniziato a montare tele di dimensioni diverse oppure pezzi di telaio costituiti da barre o sezioni di legno, la stesura grafica di un disegno è diventata un’esigenza concreta.

Il primo disegno di tavolo del 1966, per esempio, è nato da un colore, l’argento, perché volevo associare un’idea di metallo a un tavolo normale. In seguito ho cominciato a lavorare con le forme geometriche, passando dal portale (Deep Ultramarine Blue Portal V-a, 1966-1967, al trapezio (Brownish-Silver Standing-Trapezium Object, 1967.

 

GC

Tra il 1966 e il 1967 hai cercato di uscire dalla costruzione di archetipi come il palo, il tavolo e la porta, che a volte dialogano, per esempio in Blue-Silver Small Pole and Prussian-Gray Horizontal Bar (1966-1967), sperimentando insiemi più articolati come i cavalletti e le due barre, Reddish-Bronze (Mat) Bars on Trestles (1967), o successivamente innestando realtà diverse tra di loro, come il cerchio e la barra: Blue-Gray Bar with Curves on the Ground (1967-1968).

 

GP

Mi attraeva l’idea più realistica del mondo del mobile, come quando ho messo i piedini sotto i lavori a terra (Black-Violet Marbled Object with Handrails, 1967-1968), oppure ho usato il finto marmo. In altre opere volevo mettere qualcosa di curvo, in altre ho posizionato la barra in orizzontale sul muro e siccome da sola non funzionava, aggiunsi un paletto in perpendicolare (Blue-Silver Small Pole and Prussian-Gray Horizontal Bar, 1966-1967). Erano tutte variazioni estetiche. Le barre sui cavalletti nascono dal lavoro di laccatura sui pali posizionati in orizzontale su normali cavalletti da lavoro.

 

GC

La ricerca di un innesto o di un incontro suggerisce la rottura di un limite e di una dimensione monolitica dell’oggetto. L’effetto della collisione, seppur neutra e progettata, introduce un certo principio di disordine, immettendo un’intesa sorprendente nell’oggetto. L’incrocio e il disordine distinguono il tuo lavoro da quello di McCracken, basato essenzialmente sulle varianti materiche e cromatiche della stessa forma: l’asse appoggiato a terra e a muro. L’instabilità sta solo nel mutamento, che è virtualmente infinito, del valore cromatico e materico della superficie. Mentre nel tuo lavoro l’innesto o la combinazione suscita una sensibilità culturale e fantastica; s’impone come generatore d’intensità estetica.

 

GP

Nel 1966, quando feci la prima personale alla Galleria Sperone, non conoscevo il lavoro di McCracken, anche perché la sua presenza in Europa risale al 1969, con la mostra alla galleria di Ileana Sonnabend a Parigi, dove arrivò attraverso il gallerista californiano Nicholas Wilder. Penso che il suo lavoro sia improntato all’idealismo e a un misticismo orientale teso a una de-fisicizzazione dell’oggetto. All’epoca c’erano anche gli scultori inglesi Philip King e William Tucker , in mostra da Pistoi alla Galleria Notizie nel giugno del 1966, ma i loro colori non erano interessanti per me; erano colori standard, mentre io ricercavo variazioni cromatiche inedite. Inoltre loro creavano sculture un po’ ridondanti, mentre per me contava la leggerezza anche di immagine – come facevo nei pali –, perché le cose efficienti, come le motociclette, sono leggere. Per i paletti usavo legno pieno, ma poi, dopo aver esposto a Milano da Sperone nel giugno del 1967, il modellista di Ettore Sottsass jr, che frequentava la galleria, mi disse che i miei oggetti potevano essere più leggeri usando lo scatolato di compensato e unendo le pareti dei parallelepipedi a 45 gradi, secondo una tecnica allora piuttosto costosa.

In ogni caso le caratteristiche linguistiche del mio operare mi differenziavano dai californiani e dagli inglesi. Evitavo il riduzionismo e il racconto formalista: per me l’importante era creare una nuova realtà estetica. Se si analizzano i “titoli” delle mie opere si capisce che sono descrittivi e danno informazioni tecniche precise riguardo la costruzione e i materiali, con l’intento di rifuggire da qualsiasi interpretazione “espressiva”. Oltre ai dati informativi, la “descrizione” include sempre un oggetto, come per esempio fence in Metalloid Gray-Brown Fence Object (1967-1968), handrail o door way in Metalloid Beige-Gray Shored-Up Door Way, I (1967-1968), table sculpture, reading-desk, disk, dove due entità si fondono insieme. Seguiva la descrizione dettagliata dei materiali

 

GC

Dopo l’affermazione internazionale della Pop Art americana con il conferimento a Rauschenberg del premio della Biennale di Venezia del 1964, che relegò nell’indifferenza molte ricerche europee e asiatiche dal Nouveaux réalisme all’Arte programmata, dal Neoplasticismo al gruppo Zero e a Gutai, si sviluppò una reazione linguistica poi sfociata in diverse mostre che erano una chiara manifestazione del rigetto dell’iconografia di massa. Nell’aprile del 1966 si apriva al Jewish Museum di New York “Primary Structures”, una rassegna di Minimal Art, a cui seguirono in giugno “Arte abitabile” alla Galleria Sperone di Torino, e a settembre “Eccentric Abstraction”, alla Fischbach Gallery di New York, che sembravano voler rispondere focalizzandosi sul “vissuto” degli oggetti e delle materie. Nel 1967 la pratica espositiva si aprì all’arte concettuale e all’arte povera con “Non-Antropomorphic Art by Four Young Artists” alla Lannis Gallery di New York, seguita dalla pubblicazione nel 1967 di Paragraphs on Conceptual Art di Sol LeWitt e in Italia dalle collettive “Fuoco, Immagine, Terra, Acqua” a Roma (galleria l’Attico), “Arte Povera – IM Spazio” a Genova (galleria La Bertesca) e “Con temp l’azione” a Torino (gallerie Sperone, Il Punto e Christian Stein). Tali mostre e tali enunciazioni teoriche mutarono il modo di pensare e presentare l’arte così da passare da una condizione estremamente fisica e materiale a una fisica e immateriale. La presentazione delle opere si apriva a un relazionarsi alla situazione architettonica e ambientale, superando le territorialità museali.

La partecipazione artistica si fece più aperta e gli interventi entrarono in dialogo tra di loro, creando una “confusione” allestitiva che era invece fusione di energie simili. Il risultato fu un potenziamento del presentarsi collettivo, per cui anche il tipo di contesto mutava, aprendosi sino a includere i grandi spazi, come i loft e gli interni dei capannoni industriali, sia storici che contemporanei. Anche le opere d’arte diventavano più flessibili e morbide, adattandosi alle diverse condizioni architettoniche e spaziali. Ci si appropriava di ogni possibile habitat all’esterno e all’interno dell’edificio, stabilendo una connessione e una partecipazione che ammetteva la presenza attiva tanto dell’opera quanto del suo contesto. Era la rivendicazione di un possibile dialogo che non fosse controllato dalle strutture del potere selettivo da parte del mercato o dell’istituzione, ma che trovasse una propria libertà collegata all’attivazione di qualsiasi spazio – dal naturale all’artificiale, dall’antico al moderno. La dinamica di questa modalità espositiva ha interessato nel 1968 alcuni tuoi lavori – da Metalloid Gray-Brown Fence Object (1967-1968) a Black-Violet Marbled Object with Handrails (1967-1968)– presentati nell’ambito delle mostre collettive “Arte povera” a Bologna (Galleria de’ Foscherari), “Deposito d’Arte Presente” a Torino (Galleria Gian Enzo Sperone) e “Arte povera + Azioni povere” ad Amalfi (Arsenali).

 

GP

Molte di queste mostre tendevano all’evento, penso a quelle a Torino e ad Amalfi – per attuare un passaggio tempestivo dall’opera all’azione. Si lavorava molto sull’equilibrio e sullo stare insieme, sia come gruppo di persone che come massa di energia. Ci sentivamo protagonisti di un’avventura e volevamo crescere. Eravamo proiettati verso la realizzazione di un “oggetto-arte” che potesse competere con l’“oggetto-vita”.

 

GC

È palese che in molte ricerche – da Pistoletto a Jannis Kounellis, da Mario Merz a Zorio –, ricorrono temi come gli utensili, tavolini e letti, mensole e porte, che rientrano in uno spazio di accadimento vitale. Sono immediatamente comprensibili in uno scenario che è il flusso del vivere quotidiano. Si intrecciano in perenne mescolanza con l’architettura e sembrano rifiutare uno stato autonomo per designare una situazione di eventi. Le tue sculture fino al 1966 hanno rigettato questa contaminazione con il fluire occasionale della vita; sono piuttosto modelli astratti di cose fisiche e cromatiche, facili da riconoscere, e che non si possono confondere con le situazioni circostanti. Forse per questo, dopo esserti integrato, sia dal punto di vista teorico – quello che mi riguarda –, sia per quello concernente gli spazi espositivi, è avvenuta una frattura. In molte interviste dichiari perché hai lasciato l’Arte povera. La motivazione che dai non è storicamente corretta, perché nelle mostre iniziali del gruppo, insieme a te, erano presenti anche Gilardi e Mario Ceroli, che in seguito, come nel tuo caso, non sono stati inclusi per la diversità linguistica. Seppur in una dimensione indipendente, il vostro lavoro mostrava un forte interesse per l’iconografia popolare, come stiamo cercando di evidenziare in questo dialogo, che nel tuo caso riguarda le immagini dell’estetica industriale. In questo contesto è maturata una separazione dei percorsi: una reciproca non condivisione che è stata linguistica e non relazionale.

 

GP

Dal 1967 partecipai alle mostre dell’Arte povera (Torino, Bologna, Amalfi) per spirito di condivisione con Sperone, che promuoveva il mio lavoro come in occasione di “Prospect” alla Kunsthalle di Düsseldorf nel 1968. Tuttavia ho mantenuto un mio territorio isolato con le mie personali alla Bertesca di Genova e alla Galleria Annunciata di Milano, sempre nel 1968. Come ho rilevato più volte, ritengo che sia stato importante il supporto di Pistoletto e il dialogo con Paolini, che erano partecipi del gruppo, seppur fosse evidente – come sottolineò lo storico d’estetica Gillo Dorfles, in occasione del dibattito tenutosi durante l’apertura di “Arte povera + Azioni povere” ad Amalfi – che insieme a Fabro e a Paolini il mio contributo non fosse inscrivibile nel tuo contesto teorico.

La rottura era maturata anche a causa della situazione creatasi al “Deposito d’Arte Presente”, un’iniziativa di Gian Enzo Sperone e di Marcello Levi, insieme ad altri collezionisti torinesi. La collettiva si svolgeva in un enorme spazio industriale dove era possibile esporre molti lavori di diversa scala. Ero presente con due grandi opere un tavolo di 3 metri, Matt Metal Brown-Purple Big Table Sculpture (1967-1968) e "BLACK-VIOLET MARBLED OBJECT WITH HANDRAILS" 1967-1968 che, per esigenze altrui, venivano spesso spostato a causa del loro forte impatto nello spazio in confronto alle altre opere di dimensioni più normali. Finivano in fondo allo stanzone. Pertanto considerato il reciproco disagio, e iniziando a percepire le differenze d’identità, tolsi il disturbo.

Decisi allora di prendermi una pausa, e nel 1968 iniziai a restaurare una motocicletta Indian degli anni Trenta comprata da un restauratore. Mi piaceva seguire i lavori, vedere i colori, così mi venne in mente di immettere anche i miei interessi e le mie passioni nella mia arte – tra gioco e mania, attenzione e attrazione per l’estetica industriale e per il design –, che includeva anche l’idea di possedere e guidare una motocicletta. Cominciai a fare modellini segando parti di macchinine che, in cambio di un sostegno economico per fare la mostra di Toselli nel 1969, diedi a Marcello Levi, sebbene non li consideri assolutamente come opere d’arte. Si tratta di 17 assemblages di ruote e parti recuperate da modellini di aerei, moto o costruite da me, tutti della dimensione di circa 20-25 centimetri, di cui resta testimonianza solo dei 10 presentati alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino nel 2015. Si affiancavano alla mia collezione di modelli di automobili che ho coltivato sin da bambino e che a partire dalla metà degli anni Sessanta ho incrementato al massimo. È allora che è nata l’idea dei veicoli aerei e terrestri.

 

GC

Com’era la situazione del mercato? Riuscivi a vendere e a mantenerti?

 

GP

I soldi iniziarono a girare dal 1969, con la mostra alla Galleria di Franco Toselli, in via Borgonuovo, a Milano. Prima facevo molti lavori al di fuori del mondo dell’arte. Verniciavo i pianali dei flipper, e ho anche fatto la guida alla Galleria Civica d’Arte Moderna a Torino per la mostra di Graham Sutherland e di Hans Hofmann nel 1965.e la prima mostra sulla Pop-Art americana.

 

GC

Ritornando ai veicoli, da dove nasce la loro immagine? Quali fonti iconografiche e storiche hai utilizzato? Le prime prove di barra con incavo curvo al centro e le ruote davanti e dietro Black Scooter II (1969) appaiono come evidenti variazioni, in orizzontale, dei pali a cui aggiungi una filettatura laterale come decorazione. Volevi simulare un immaginario collegato alla velocità e alla carozzeria di motocicletta (tanto che nel titolo compare la parola scooter)? Quest’attenzione al mezzo di trasporto è costante dalla fine dell’Ottocento alla modernità, tra artisti e architetti, come per esempio Vladimir Tatlin, con il suo Letatlin (1929-1932), e Richard Buckminster Fuller con Dymaxion Car (1933)

GP

Premesso che scooter significa monopattino era un riferimento ad un veicolo molto semplice (il monopattino appunto) ma decorato come il serbatoio di una motocicletta anni ’20 o ‘30

Per le figure di aeroplani consultavo alcuni manuali pubblicati da Hoepli o in Inghilterra, mentre per i veicoli terrestri fui sollecitato dalla mia nuova passione per la motocicletta. Dal 1969, sono due soggetti che corrono in parallelo.

I veicoli a terra sono una variante delle strutture a pavimento o a parete. Sono fatti all’inizio con lo stesso legno di obeche o in compensato e tendenzialmente riproducono tutte le tipologie di veicoli, soltanto che acquistano un’identità più reale con la sella incava come per esempio in Black Scooter II oppure arrivano a costituire una “vera” bicicletta in Rhombus Frame Bicycle (1969), che come oggetto è una bella invenzione, anche se molto naif. Le sue ruote sono di biciletta con raggi normali, mentre nelle ruote che realizzai successivamente raddoppiai il numero dei raggi; compravo i mozzi e i cerchi e li facevo montare, alcuni erano ramati altri nichelati. Volevo che assomigliassero a raggi delle ruote di automobili, che risultassero visivamente più pieni. In un altri casi, ad esempio in Marbled (Beige-Green) Vehicle (1969), ho messo nella parte posteriore una specie di sospensione a triangolo, nata da pura esigenza estetica. Curiosamente l’opera anticipa lo schema del “Budweiser Rocket”, un veicolo su ruote progettato negli anni Settanta per infrangere il muro del suono. Iniziai anche ad adottare la carta che riproduce la striatura del marmo – Marbled Vehicle (1969)– e viene incollata e protetta con un trasparente molto resistente; in lavori come Aerial Object (1969) ho usato una pasta “pettinata”, del tipo impiegato per fare gli stucchi e stesa con la spatola dentata per ottenere l’effetto di un variegato.cangiante col colore madreperla

GC

Passiamo ora ad un altro veicolo, l’aeroplano. L’immagine delle ali e delle fusoliere fa parte della cultura accelerata contemporanea. La storia dell’aviazione, in Italia, ebbe inizio con il primo “balzo” di Orville Wright, al quale in seguito hai reso omaggio con una serie di opere, e si sviluppò con l’apporto di industrie come le officine Caproni, a Milano, i cui prodotti già nel 1913 superavano i 200 kilometri orari. Anche l’aeroplano rappresentava la manifestazione di un’estetica industriale e tecnologica che, specialmente a Torino, correva in parallelo alla storia dell’automobile.

Il soggetto del volo e dell’aeroplano entra nella tua produzione a partire dal 1969, con opere che richiamano l’immagine delle ali e, in seguito, delle eliche: un altro paesaggio del reale?

GP

Realizzai Pearlescent Wings (1969) con i sostegni dell’ala superiore in bambu’ e le ali in legno scatolato, stuccato e laccato .Prima l’avevo realizzato con le ali in legno centinato rivestito di seta e supporti in tubo nichelato, ma era troppo fragile e instabile. Era un esperimento parallelo a Rhombus Frame Bicycle (1969) Dal bambù ha avuto origine Aerial Framework (1969) in finto bambù (legno tornito). Sempre nello stesso anno produssi Road Triangle (1969).

GC

Se le sculture fino al 1968 evidenziano un’estetica della staticità e della gravità dell’oggetto-colore, con i veicoli passi alla mobilità connessa al concetto di viaggio e di trasporto. Le ali alludono al movimento e l’elica suggerisce la spinta, mentre i veicoli a terra si alimentano di una possibile traiettoria. Di fatto l’agone espositivo si tramuta in campo d’azione, meno legato allo spazio architettonico della sala espositiva, ma più a una profondità di campo e di vuoto.

Per rispondere all’idea di velocità, le forme si arrotondano o si arricchiscono di supporti, come le ruote. Tutte le parti si alleggeriscono. È una metamorfosi totale, in cui lo sguardo sembra rivolto non a una scultura nello spazio bensì a un oggetto proiettato verso un tragitto stradale o aereo.

GP

Va in questa direzione il già citato Road Triangle, opera nata in piccolo formato come modellino e che poi ho costruito facendo ricorso al parafango di una Gilera 300 (in seguito una Moto Guzzi Lodola) modificata con una ruota centrale, a cui ho aggiunto un filetto decorativo. Per il suo aspetto è stato spesso chiamata “l’Elmo”. Rappresenta un caso di passaggio dal modello all’oggetto. Ero sempre molto attento alla qualità dell’esecuzione. In quel periodo mi affidavo a un meccanico che lavorava per i motociclisti. Cercavo i materiali e i pezzi; per esempio mi piacevano le carte stampate finto marmo usate dai rilegatori attivi a Parigi negli anni Sessanta e Settanta perché rimandavano alla scultura antica.. Frequentare il mondo del motociclismo mi ha reso più preciso e concreto: le cose non si devono rompere. Se fosse accaduto sarebbe stato un guaio anche in arte; diventava allora importante capire e studiare le modalità di montaggio e smontaggio. Le ali (Pearlescent Wings, 1969) derivano da un’immagine di un biplano Fokker D VII del 1918. Le ho costruite con due incavi, uno rotondo e l’altro rettangolare come erano fatte in un kit da montare, con l’aggiunta di vernice madreperla che avevo scoperto nel colorificio dove ho lavorato.

GC

Ho notato che in alcuni veicoli appare una componente che sembra somigliare a un serbatoio, mentre non compare mai alcun motore. Perché?

GP

Il motore non c’è mai, anche nei quadri che ho fatto successivamente dedicandoli ai fratelli Wright. La componente meccanica rischia di diventare una cosa in più, rendendo la scultura troppo realistica. Tendo a spingerla verso una dimensione astratta. Ho sempre esaltato l’aspetto estetico, da scultura compatta; per esempio le ruote di Black Scooter II (1969) sono piene per dare maggior armonia all’insieme. I componenti erano spesso di materiali diversi, dal bronzo cromato all’ottone nichelato. Il corpo è nero lucido; ma poi ne ho fatto uno grigio.. Poi aggiungevo le filettature ispirate ai serbatoti delle motociclette degli anni Venti e Trenta: è un dettaglio che aggiunge leggerezza decorativa e che ho spesso replicato sulle mie moto e sui sidecar.  da competizione

GC

Lo statuto dell’identità di un’opera d’arte postula la firma come elemento necessario. È un segno autoesibitivo dell’agente e dell’autore, che ne indica la presenza fisica e intellettuale. È fonte utile per testimoniare che è stato coinvolto nell’azione del fare. Prova il desiderio di irrepetibilità dell’artefatto, con la sua trama ricca di digressioni uniche.

GP

Fin da ragazzo l’idea della firma mi infastidiva. Vedere la firma dell’artista, come Picasso, non aggiungeva alcunché all’opera. Nel 1970, quando iniziai a realizzare i veicoli con serbatoio, come Amaranth Triangle Frame Vehicle with Gray Tank (1970), scoprii che l’industria ha sempre contrassegnato i propri prodotti con un logo decorativo. Dal 1971 iniziai a mettere la mia “firma” industriale G.P., che ho coniugato visualmente in differenti modi. I primi veicoli vennero esposti nel 1969 alla Galleria Toselli a Milano. In un’altra galleria di Toselli in uno spazio sotterraneo – un seminterrato dalle pareti altissime –mi venne l’idea di realizzare grandi quadri verticali (Wright Brothers G.P. (I): prospect with propellers on vertical, 1972-1973), e Wright Brothers G.P. (IV): profile with crown on vertical, 1973): sorta di pale d’altare dedicate alla “sacralità” dei fratelli Wright, con la presenza, come nell’antichità, della figura dell’artista, il logo G.P. L’idea della pala è legata alla mia infanzia, quando frequentai una scuola di preti per un anno, e mi portavano a messa: in chiesa vedevo dipinti di dimensioni maestose di cui coglievo la grandezza.Tutto il resto non mi interessava

GC

In questi lavori la carenatura è molto allungata.
Anche i veicoli da record sono lunghissimi, più sono lunghi e aerodinamici maggiore è, in linea teorica, la loro stabilità. Mi è sempre piaciuta l’idea di una forma più lunga del reale. Blue-Amaranth Iridescent Frame Vehicle (1971) è composto di soli tubi, con una verniciatura perlescente cangiante, sul fondo amaranto e il riflesso azzurro pavone. Altrove alla forma sviluppata in lunghezza aggiungo anche una decorazione centrale, come nel caso della coroncina finto Settecento in Gray and Black Decorated and Initialed Rectangular Bar (1971). È un motivo circolare che ho ripreso da una maniglia di un mobile settecentesco, di cui ho fatto lo stampo e la fusione in bronzo. È una corona decorativa, quasi mortuaria. Per associazione, mi viene in mente quando, nel 1971 – l’anno in cui iniziai a fare gare di corsa, decorai con filetti un mio sidecar e negli anni successivi molti corridori mi chiesero di farlo anche per i loro. L’impegno nelle corse mi ha fatto capire l’importanza di controllare al massimo la precisione delle caratteristiche tecniche e visive delle mie opere. Di fatto i piloti dei sidecar, che erano di carattere artigianale, perché fatti a mano, erano costruttori. Da loro ho imparato moltissimo. Affidai a un costruttore di sidecar la realizzazione dei primi telai in tubi, che poi rifinivo personalmente. Dopo avere acquistato la mia prima moto, una Guzzi V7, cambiai subito il colore del serbatoio, dipingendolo bruno-arancio metallizzato con filetti bianchi. Frequentando il mondo delle corse, andavo spesso in officina, osservavo e registravo tutto quello che poteva servirmi per l’arte. Più che i motori, mi interessavano i telai e le carrozzerie. In officina diventai lo specialista delle verniciature. Oggi molto è cambiato, con il mio modellista lavoriamo al CAD e discutiamo come procedere.

GC

La magia di fare parte di una comunità elettiva come quella delle corse ricorda l’urgenza dell’arte di distinguersi dal reale. È come fare entrare l’oggetto in una comunità virtuale di artefatti; una comunità a sé e unica, ma al tempo stesso competitiva. Ne deriva un modo di presentarsi con un altro status estetico associato al godimento di un’attività diversa. Non è molto dissimile dal piacere di costruire una costellazione – o una collezione – di elementi eterogenei; si è parlato della tua collezione di automobili in scala... A quali altre fonti di ispirazione hai guardato nel corso della tua avventura artistica?

GP

Oltre ai libri delle edizioni Hoepli sulla storia dell’aviazione, mi sono appassionato ai francobolli, che soprattutto tra il 1972 e il 1974 sono stati un riferimento per la realizzazione dei quadri sui fratelli Wright. Le eliche, che a volte appaiono sulle mie tele come simbolo sulla cornice, sono ispirate a un francobollo del Congo Belga emesso nel 1928. In altre occasioni, laddove la visione dell’aereo è angolare, ho guardato a un’immagine dell’aereo di Italo Balbo (SM 55), in alcuni francobolli emessi dalle colonia italiane negli anni ‘30

GC

Dal 1971 ha iniziato a dispiegare ali a parete, recanti il logo “GP” oppure per esteso il nome “Piacentino” al centro di una placca rotonda o ovale.

GP

Per la firma per esteso di Pearl Wall Wing with Signed Nickel Plate (1971) usai il carattere Cadillac Americana, in seguito ridotto alla sigla G.P, come in Pearl Purple-Brown Propeller-Wing with Initialed Silver Plate (1971). Sta bene nel cerchio e richiama il Gran Premio. Le ali a parete sono realizzate con centine, con sopra la tela e poi ancora sopra la vetroresina. Un lavoro pazzesco, perché l’uso della resine e della fibra di vetro specialmente eseguito in positivo senza stampo richiede giorni di impegno operativo.

GC

Intanto il tuo percorso professionale include, nel 1970, l’incontro con Reinhard Onnasch, nella cui galleria a Colonia presenti una personale. Che importanza ha avuto questa esperienza?

GP

All’epoca Onnasch era un giovane collezionista. Nel giugno del 1970 visitò la mostra “Mochetti, Piacentino, Pistoletto” alla Galleria Toselli, dove presentavo su due mensole 30 piccoli veicoli ciascuno decorato in modo diverso. Ne rimase colpito e mi propose di fare una mostra in uno spazio che stava aprendo. Posi come condizione l’acquisto totale dei pezzi e accettò. L’esposizione si tenne al piano terra della Galeriehaus in Linden Strasse; nello stesso momento in uno spazio al piano superiore c’era una delle prime mostre di George Baselitz e più sopra Gilbert and George. Onnasch comprò molte opere tra cui Gray-Blue Pearl Decorated and Signed Oval Bar (1970) e iniziò a presentare le mie opere alle fiere d’arte. In seguito, con lo scopo di promuovere il mio lavoro negli Stati Uniti, sollecitò Ivan Karp, già assistente di Leo Castelli, che aveva aperto l’O.K. Harris Gallery a New York, in West Broadway, a fare una mia mostra, nel novembre del 1971. Prima di New York, ci furono due mostre importanti alla Galleria König di Ginevra e alla Galleria Toselli di Milano in cui presentai veicoli e ali.

GC

La passione per il sidecar e la motocicletta non ti distolsero però dal riferirti alla storia dell’arte; per esempio Large Black Wall Rectangle with Decorated Bar and Initialed Silver Plate (1971) richiama una cornice, seppur tubolare, in cui sono inquadrati dei segni, incluso il tondo con il tuo logo. La “firma” continua ad apparire anche nei quadri.

GP

Ha la forma di un quadro e sembra accennare al fatto che tanta pittura è nata separando i particolari.

GC

Quando sono comparse le eliche? È il tuo modo per mettere in evidenza un’altra componente estetica dell’industria della velocità?

GP

Sono apparse tra il 1971-1972, prima in Nickel Triangle with Crown and Initialed Propeller I  e poi su barra (Gray and Amaranth Decorated Big Bar with Silver Crown and Initialed Propeller). Alcune sono in bronzo nichelato, altre in bronzo ramato. Richiamano la simbologia dell’aviazione e la filatelia nata intorno a questo soggetto. Per lungo tempo ho fatto ricerche per identificare gli aerei raffigurati sui francobolli. Sono presentate, insieme ai veicoli e ai dipinti dedicati ai fratelli Wright, nella mia prima antologica in uno spazio museale, al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, nell’ottobre del 1972.

GC

Nello stesso periodo hai sviluppato anche il tema delle ali?

GP

L’idea delle ali è nata da un biplano Fokker. da cui deriva PEARLESCENT WINGS (1969).

Le ali hanno due incavi posteriori come nella realtà, uno tondo e l’altro rettangolare, e come colore ho utilizzato un madreperla che avevo scoperto durante il lavoro nel colorificio alla fine anni degli Sessanta.

GC

Intorno al 1970 nel tuo lavoro si intrecciano dunque diverse strade che riguardano la firma, l’interesse per la costruzione e l’iconografia dell’aeroplano, la focalizzazione degli esperimenti tecnici e progettuali dei fratelli Wright…

GC

La serie dedicata ai fratelli Wright è un omaggio e una solennizzazione delle loro invenzioni ma anche delle loro capacità ingegneristiche e tecnologiche. Sono opere esemplificative di un rifiuto per i metodi costruttivi empirici, a favore di una sperimentazione controllata. Colgo delle forti analogie con la tua attitudine post-informale e antigestuale, che ti distingue rispetto agli artisti che ti hanno proceduto e dai tuoi contemporanei, attratti dalla fisicità brutale e grezza delle materie. È un segnale della tuo orientamento verso per un procedere scrupoloso e strutturale. Penso che il tuo interesse per la progettazione e per gli inventori di macchine volanti non sia motivato soltanto da una passione per il volo, ma anche dalle caratteristiche visuali e dalla pratica dettagliata e accurata, e da un approccio preindustriale all’oggetto. Anche le modalità di risolvere problemi complessi nel campo dell’aerodinamica e delle materie leggere si riflette nell’essenzialità del tuo modo di costruire. In Aerial Framework (1969) e Pearlescent Wings (1969), per esempio, hai utilizzato bambù e tele per rendere la scultura leggera e primaria nelle forme. Inoltre, dato che i fratelli Wright arrivavano ai loro risultati più per intuizione che per conoscenza scientifica, è possibile avvicinarli agli artisti. Sono queste le motivazioni che ti hanno indotto a guardare al loro modo di costruire. Il tuo progettare dipinti riflette la peculiare inventiva del fratelli Wright?

GP

Mi risulta difficile elencare tutte le motivazioni che mi hanno spinto verso questo soggetto che si è evoluto fino ad oggi con M39_5_GP (2015). Gli aerei mi sono sempre piaciuti, specialmente quelli storici, ma anche quelli moderni mi interessano. È il caso dei caccia, massima espressione dell’efficienza e della velocità. Ha contribuito anche la mia passione per i francobolli, grazie alla quale tra il 1973 e il 1974 ho scoperto il francobollo del Congo Belga emesso nel 1928 di cui ho già parlato, nel quale le eliche funzionano da cornice, dettaglio che ho ripreso in opere come Wright Brothers G.P. (I): prospect with propellers on vertical (1972-1973) e Wright Brothers G.P. (II): two prospects with propellers on horizontal (1972-1973). Scaturiscono da queste motivazioni anche Pearl Wall Wing with Signed Nickel Plate (1971), con l’ala fatta su centine, che presenta forti analogie con le tecniche costruttive e sperimentali dei fratelli Wright : lavoravano manualmente a pezzi unici proprio come gli artisti .

Nel giugno del 1971, quando esposi alla Galleria Toselli, presentai insieme i miei veicoli, barre e le ali. Sono oggetti che condividono la stessa matrice progettuale e visuale, eppure il mio procedere non è mai realistico, sebbene sia ripreso dai manuali di aviazione. Applico delle leggere modifiche in modo che la mia rappresentazione degli aerei non riproduca mai la parte meccanica, il motore o le eliche: tutto si concentra sulle ali, come se fossero due barre parallele. La struttura diventa così un’entità decorativa, che è amplificata dalla presenza della firma in corsivo inglese classico (Wright Brothers G.P. (III): prospect with little crowns, 1972-1973. La pittura è a mano libera, come lo sono i filetti tracciati sulle carrozzerie di qualche decennio fa’ Ci deve essere un senso di leggerezza e di precarietà.

GC

Ho notato che i dipinti che hai realizzato dal 1972 a oggi sono accomunati da un senso di animazione, quasi che fossero delle correnti d’aria cromatica, fatta di fluidità e di luminosità. Quasi che la tua tecnica pittorica, in particolare negli ultimi anni, , si sia avvicinata a una brezza di segni leggeri e dalle sfumature variabili. Sono stesure generate dalla tua mano che creano un’animazione. Quasi che la tecnica pittorica divenisse un veicolo e un messaggero dei flussi ventosi sollevati dall’aereo.

GP

Se guardiamo a Wright Brothers G.P. (II): two prospects with propellers on horizontal (1972-1973) si può notare che la vernice usata per le eliche è inglese, quella impiegata tradizionalmente per le cornici classiche, composta di polvere di rame. Il senso del volo probabilmente è dato dal fatto  che l’aereo è piccolo e lo spazio vuoto grande, ma non è un effetto voluto. Esiste poi una motivazione nascosta, sottesa ai miei veicoli: la scoperta che il padre dei fratelli Wright costruiva biciclette. È un dato che si connette con i miei disegni di veicoli a due o tre ruote.

GC

L’anno di stesura del tuo primo quadro sul tema è sorprendente. In un clima di arte processuale e concettuale, legata alla scomparsa dell’opera e alla sua de-materializzazione, ti sei impegnato in un territorio “tradizionale” come la pittura. Certamente non con uno spirito neoespressionista, come avverrà alla fine degli anni Settanta con Anselm Kiefer e Sigmar Polke, ma con una sorta di freddezza assoluta che rifugge qualsiasi compiacimento narcisistico a favore di una restituzione visuale della fluidità dell’oggetto e dell’essenzialità del vento che lo sostiene.

GP

Mi ricordo che, al tempo del primo quadro Wright Brothers G.P. (I): prospect with propellers on vertical (1972-1973) arrivasti in studio e mi dissi: “sembra un’insegna”. In effetti era molto simile a un’insegna perché intrisa di una componente impersonale, puramente comunicativa. Era il risultato di una composizione di elementi  che si traduceva in informazione attraverso la comunicazione decorativa: dall’immagine, alla firma, alla cornice.

GC

Come funzionano le varianti interne di questa serie di dipinti, dove usi cerchi e lunette, oppure tele in verticali o in orizzontale? Sul piano iconografico la rappresentazione degli aerei mostra diverse prospettive.

GP

In Wright Brothers G.P. (IV): profile with crown on vertical (1973) e in Wright Brothers G.P. (V): profile with crown on circle (1973), il cerchio si inserisce nel rettangolo e l’aereo è disegnato di profilo, mentre il colore è spesso un ocra rosato o un ocra arancio, perché mi interessano i colori spenti. Tuttavia il mio modo di dipingere non rinnega la pittura tradizionale e moderna. Amo Gauguin e adoro Cézanne, con il dispiacere di non poter dipingere come loro. Oggi, tra gli artisti contemporanei, Peter Doig è riuscito a fare una pittura intensa sulla scia di quei maestri

GC

Il riferimento a una pittura piatta e impersonale mi riporta alla tua componente pop, in particolare al modo di stendere il colore di Roy Lichtenstein, totalmente in superficie. Negli anni Sessanta emergeva la pittura industriale e a spruzzo su masonite di Robert Mangold, a New York, e su tela di Doug Wheeler a Los Angeles, le cui opere scorrono in parallelo ai tuoi primi lavori monocromi e sagomati (andato distrutto, 1965).

GP

Mi è sempre piaciuta la pittura pop newyorkese. Tra i californiani, a casa di Onnasch, ebbi modo di vedere il lavoro con i vetri di Larry Bell e i dipinti di Edward Ruscha.

GC

Per quanto riguarda la monocromia fredda bisogna citare Ellsworth Kelly.

GP

È vero, anche se l’ho conosciuto tardi, ho apprezzato molto l’opera di Kelly. Feci alcuni lavori con buchi quadrati, che proposi a Panza di Biumo, ma dovetti distruggerli per la difficoltà tecnica nel realizzarli; non riuscivo a tendere la tela. Forse restano delle fotografie di queste sperimentazioni, dovrebbero essere nell’Archivio del Getty Research Institute a Los Angeles. Invece le informazioni sull’arte in California arrivarono tardi, all’epoca furono probabilmente ostracizzate dal sistema di potere newyorkese.

GC

Perché i quadri sui fratelli Wright nascono come serie?

GP

Sono stati pensati per un’ampia mostra da Toselli che poi non si è fatta. Nella sequenza si innesca il meccanismo delle varianti, come nel caso in cui ho innestato immagini di colonne (Wright Brothers G.P. (XI): profile on vertical rectangle (gray) with initialed wings and crossed propellers, 1975), di una croce e di un portale decorato. Sono motivi classici, come classica è la disposizione a parete che a volte è già presente in lavori in cui trasformo due barre in una croce Blu silver… Bar, 1966-1967.

GC

Nel tuo percorso solitario c’è il soggiorno a New York tra il 1980 e il 1981, nello stesso periodo in cui Onnasch organizza a Brema una tua personale.

GP

Ho abitato per sei mesi in uno studio pazzesco. Ero sulla Sixth Avenue e la 18ma Strada, nella zona di Chelsea. La scelta di trasferirsi a New York era dovuta alla necessità di cambiare aria, anche se poi sono arrivato nel momento per me poco stimolante della “Transavanguardia” e della “Bad Painting”, da Sandro Chia a David Salle. Selezionavo le mostre che andavo a vedere, prediligendo quelle per esempio di Robert Motherwell o di Knoedler ; frequentavo artisti come Sol LeWitt. Ero anche in contatto con Antonio Homen, direttore della Sonnabend Gallery e conoscevo John Weber che aveva la sua galleria nello stesso edificio al 420 di West Broadway, ed esponeva Alighiero Boetti e Marco Gastini. All’epoca giravo spesso con Tom Blackwell, che faceva opere iperrealiste con immagini di motociclette. Andavamo alle mostre di moto per fotografare i pezzi in mostra, che utilizzava come motivi nei suoi dipinti. Non mi piaceva contattare le gallerie per autopromuovermi, preferivo trascorrere più tempo a lavorare per far fare telai speciali nel New Mexico oppure andare a trovare nuovi colori industriali nel Bronx. A New York ho realizzato i grandi trittici (Flight II - S.M. 55 - G.P.: prospect on blue-gray vertical rectangle with side wings, 1980-1981) inserendo spesso i riferimenti ai francobolli, come l’aereo di Balbo (SM 55), visto di profilo oppure agli idrovolanti d’epoca.

Nel 1981 tenni a Brema (GESELLSCHAFT FÜR AKTUELLE KUNST BREMEN ) una retrospettiva, una mostra molto significativa per il mio percorso lavorativo.

GC

Oltre alla loro sensibilità per la dimensione aerea, quali caratteristiche tecniche sono presenti nei tuoi dipinti ?

GP

Spesso hanno elementi in metallo inciso o sono montati con elementi lineari tipo barre.

Negli “Abstract Combines” del 1979 le tele sono combinate con vari elementi di metallo verniciato in posizioni rigorosamente stabilite.

GC

All’apparenza sono insiemi di elementi diversi. Formano un unico insieme?

GP

Derivano da un montaggio che forma un’opera unica. Li ho intitolati “Symmetrical combine” (Abstract Combine (Horizontal with Bar, Propeller, Wing), 1983-1984) e li ho ideati ispirandomi ai montaggi misurati al millimetro, come se fossero un veicolo formato da diverse componenti: le barre, il dipinto e l’aletta. Sono progettati insieme, tanto che alcuni elementi hanno angoli di dimensioni identiche oppure presentano una simile proporzione dei vuoti. In altri casi, come S.M. 55 G.P. (XIII): front image on brown-purple vertical with nickel stripe and down-bar (1990) , sono la somma di due immagini che richiamano la velocità, l’aereo e le macchine da competizione, a cui le mie sculture alludono nella sagoma aerodinamica. A volte sono il risultato di un modo di allestire certi momenti del layout espositivo di una mostra che sono sempre connessi a un’impaginazione grafica. Va poi notato che sono tutti astratti, non presentano immagini di aereo. Sono composti di diversi materiali – dall’alluminio al fiberglass – o includono rilievi verniciati, targhe incise e incisioni lineari a forma  di ala (Abstract Combine (Vertical with Bar, Disk, Cross-Shaped Propeller), 1983-1985). In altri casi al rettangolo si sostituisce l’ovale. Sono spesso simboli statici del movimento.

GC

Intorno al 1986 hai ulteriormente sviluppato la serie dei “Record vehicles”, che inizia nel 1970.

GP

S’ispirano alle macchine da record di velocità e all’idea estrema di aerodinamica, un territorio dove è indispensabile sperimentare incessantemente, proprio come nella Formula 1. Niente è teorizzabile, devi provare, provare, provare. Non è una scienza esatta, considerate le infinite variabili. Io ne sono incredibilmente affascinato; per me è l’apice del rapporto tra tecnica e scienza, legato anche  all’intuito degli artigiani nei primi del Novecento. Così continuo a progettarli e realizzarli con piccole ma continue variazioni formali

GC

Rispetto all’alta tecnologia sviluppata negli Stati Uniti, l’artigianato è un punto di forza italiano.

GP

In particolare a Torino. I miei modellisti, che sono artigiani e vivono, in campagna vicino a Busano, lavorano per importanti case automobilistiche. Persone che vengono dalla tradizione, ma che hanno operando nel settore dell’industria, uno standard di qualità altissimo. Inizialmente mi affidavo ad artigiani falegnami, saldatori carpentieri in metallo, ma era difficile ottenere qualcosa di meglio delle loro tradizioni lavorative spesso superate dalle tecnologie attuali, mentre i modellisti hanno una marcia in più. Inoltre lo standard della meccanica è la durata. E per me l’arte deve durare.

GC

La tua è una reazione alla condizione effimera di molte ricerche che implicano un processo performativo, come materie che si trasformano o corpi in azione?

GP

Non mi hanno mai convinto le opere temporanee che si disfano o svaniscono. Sono legate a un aspetto teatrale e spettacolare. Anche quando facevo dipinti da appendere, avevo l’idea di un lavoro che esisteva prima di essere appeso. Era in sé un oggetto autonomo.

GC

Torniamo ai “Record vehicles” del 1986; qual è l’idea di base di questa serie di lavori?

GP

Volevo fare una cosa semplice come la barra, trasformandola in un oggetto aerodinamico. Iniziai a fare modellini per la Galleria Arte Borgogna di Gianni Schubert a Milano, utilizzando barrette di legno che poi limavo sagomandole. Rispetto alle precedenti sculture del 1969 (Black Scooter II  e Marbled (Beige-Green)Vehicle), aggiunsi quattro mezze ruote e le avvitai mediante un sistema complesso in modo da fissarle e rendere statico l’oggetto. Se le avessi messe intere e mobili il risultato sarebbe diventato troppo realistico. Mi sono sempre piaciuti i simboli al contempo dinamici e statici. Fatta una forma ne produssi altre, tutte diverse fra loro. Ognuna presentava un frontale e una coda e con una cabina che a volte era microscopica. Erano ispirate alle macchine ad “alta velocità” degli anni Venti e Trenta. Basandomi sul prototipo, Record Vehicle Prototype (1) (1986), creai poi delle varianti, come la cabina, che a volte realizzavo corta, a volte lunga. Producevo dieci forme, poi applicavo differenti colori, quindi le arricchivo con decorazioni metalliche – simili a una fiamma – ispirate ai manifesti degli anni Cinquanta (Speed Story, I, (Light-Blue Pearl, Indigo-Black, Nickel), 1988. Qualche volta la scala dell’opera cambia e s’impone come oggetto di grandi dimensioni oppure è incorniciata (Speed Story, II (Deep Gray-Purple, Light-Blue Pearl, Nickel), 1988).

GC

In alcuni lavori introduci un livello di complessità aggiungendo elementi di supporto, come nel caso di Dynamic Shelf and Record Vehicle Prototypes (1986), opera anticipatrice delle strutture portanti degli anni 2000.

GP

È un unico scaffale, una sorta di mensola con un volume. In profondità c’è un piano di vetro satinato e aggettante, mentre all’interno ci sono due modellini con le ruote d’oro.

GC

Negli anni Ottanta la descrittività con cui avevi rappresentato i veicoli sembra lentamente lasciare spazio a una produzione nuovamente basata su forme primarie, dove a contare è l’unità minima dell’assemblare: Frame-Bar (Light-Blue Pearl) with Crown (Silver) and Flames (Nickel) (1975-1989). Sono oggetti che, seppur continuino a richiamare l’aerodinamica o la decorazione, le inglobano, quasi ne diventassero lo scenario. Sembra che il tuo processo operativo si avvii sempre più a evidenziare, e quindi a esporre, la tua storia. Nasce allora una struttura portante che è basata sul concetto di comunicare il “già fatto”, che supera la sola esecuzione, per focalizzarsi sull’informazione su ciò che raffiguri. Un atteggiamento attraverso il quale la parte pop evolve, mossa da una finalità comunicativa più attuale. Si fa più sintetica per esplicitare l’organizzazione del tuo pensiero costruttivo e la tua pratica industriale e seriale. Si complica per chiarire.

GP

Frame-Bar (Light-Blue Pearl) with Crown (Silver) and Flames (Nickel) (1975-1989) è una barra vuota con una corona , così che quest’elemento diventa dinamico. È una struttura per “collezione” di modelli o di cose: un sostegno. Ce ne sono di diverse misure.

GC

Gli anni Ottanta sono segnati, in Europa, da una forte  neo-espressività che si traduce in una pittura figurativa e di spessore cromatico, ma di significato inconsistente. Negli Stati Uniti invece si verifica una reazione neo-geometrica che si distacca nettamente dalla manualità pittorica per concentrarsi sulla dimensione artificiale e impersonale degli oggetti kitsch e di massa. La prima è espressione di un processo connesso con la psicologia e la brutalità del vivere e del dipingere, che cerca di elaborare modalità di rappresentazione diverse, intime oppure politiche – da Enzo Cucchi a George Baselitz – mentre la seconda cerca di scandagliare il significato del “non vivente”: le cose. Tenta di classificarle e di attuare una comparazione visuale per approfondirne la comprensione, spesso condizionata da una visione tradizionalista e limitante: è il caso di artisti quali Haim Steinbach o Barbara Kruger. Per questi ultimi il territorio d’indagine è la qualità e non il prodotto.

Il tuo discorso sembra inserirsi in quest’ultimo ambito: cerchi di dare una risposta creativa per liberare l’oggetto dalla ripetitività banale e impersonale. Quando, nel novembre del 1985, hai esposto alla Galleria Christian Stein di Torino i tuoi “Abstract Combines”, hai riaffermato il potere della manualità e della tecnica che nasce dall’essere umano e non dall’industria di massa. È stata una risposta lucida, perché attuata attraverso la progettazione di una scultura che non rinuncia a essere figurativa, rifiutando al tempo stesso l’imprecisione e l’emotività del fare. I colori sono freddi e industriali, in un momento in cui il mondo dell’arte è sommerso da ondate di pittura che vive solo d’impulsi e di individualità inconsce.

GP

Al centro del mio lavoro c’è sempre la rilevanza del controllo tecnico e matematico del risultato. Non mi lascio sedurre dal rimosso e dalle pulsioni. Ad esempio i “Record Vehicles” erano di

lunghezza prestabilita; prima misuravano 220 centimetri e poi sono diventate di 380 centimetri.Quelli piccoli di cm. 104 nascono dopo per sperimentare diverse colorazioni. A un certo momento ho anche pensato di fare delle valigette con il kit di miei piccoli lavori da montare inserendo delle variazioni. La possibilità di assemblare mi ha portato a innestare elementi tra di loro, come nel caso di Aerial Rectangle with Oval Bar and Rudders (1988-1989) o di Record Vehicle Memorial Bar (I) (1989): un’ala sagomata di metallo posta sopra un veicolo, senza ruote. È un’evoluzione del tema della velocità e un adattarsi dell’oggetto all’accelerazione, come se facesse parte di un racconto: una “Speed Story”.

GC

Rispetto alla esigenze che spingono a fare arte negli anni Ottanta, la pittura neoespressionista sembra evolvere verso un’alterazione della rappresentazione in relazione alla propria memoria, storica o psicologica, mentre i tuoi “Record Vehicles” si conformano a leggi aerodinamiche, senza che intervenga alcunché di personale e partecipativo.

GP

Certa arte nasce da una casualità incredibile, mentre la mia ricerca si basa sul necessario, connesso alla storia del volume, del disegno e dell’aerodinamica. È molto legata alla realtà e si sviluppa secondo vincoli precisi. Da qui deriva Trophy (V.V.W.) 1 (1991), che è messo in verticale, senza ruote né altri elementi, solo la scritta. Ho quindi semplificato, portando l’attenzione sul volume e sulla scritta, il cui carattere è un’invenzione grafica. L’inserimento della scritta rende l’oggetto più oggetto. Una scelta associata all’idea di vedere un’automobile con la marca: è un valore estetico.

GC

La scritta rimanda all’immagine pubblicitaria e promozionale del prodotto industriale. Un processo legato alla commercializzazione che viene rimosso in nome di un moralismo culturale connesso alla pittura pura che domina gli anni Ottanta. Tuttavia, questa falsa moralità permette al mercato di recuperare il proprio controllo sulle idee culturali e sulle proposizioni radicaliche si erano sviluppati negli anni Sessanta e Settanta. Evidenzia anche un dichiarato ritorno alla convivenza, tipica della Pop Art, con il processo industriale – dalla moltiplicazione alla feticizzazione dei prodotti.

Ancora una volta con le tue opere innesti due momenti: il potere della parola e della scrittura, tipica del processo mentale e impersonale dell’arte concettuale, applicato a oggetti di serie, che è conseguenza di un aspetto mercantile dell’arte, come si è manifestato in seguito, dal 1990 a oggi.

Attui un’altra osmosi, tipica del tuo procedere, fra linguaggi visuali, materiali e immateriali, sensuali e teorici, puri e impuri, estetici e funzionali.

GP

All’epoca Gian Enzo Sperone ha fatto mostre in cui mescolava Pop Art e Nouveau Réalisme, che poi uscì dalla scena internazionale quando New York prevalse su Parigi. Posso dire che lo stesso è successo con il mio lavoro. Anche la mia generazione ha reagito all’invasione dell’impero pop, evitando lo scontro di potere. È un fatto che mi ha condizionato: ho cercato di tenermi lontano da tutte le definizioni, compresa quella di post-minimal. I veicoli sono nati in questo contesto. Ho anche evitato di mescolarmi con la scena dell’arte italiana grazie al supporto di Onnasch  in Europa e poi di Ivan Karp negli Stati Uniti. Adesso sto godendo i frutti di tutto questo isolamento.

GC

Per sottolineare la diversità del tuo lavoro, negli anni Ottanta decidi di ripercorrere o di ripresentare opere storiche come prodotto attuale. Perché?

GP

Alla Biennale di Venezia del 1993 ripresi una X colorata del 1966,e un’altra X verniciata in un colore blu nero perlaceo datata 1992 perché volevo sottolineare l’assurdità delle date su cui spesso gli artisti barano . Ho esposto l’opera storica davanti a quell’altra di diverso colore, ma delle medesime dimensioni, fatta quasi trent’anni dopo. È un’attitudine che deriva dal grado di attenzione che il mio lavoro ha ricevuto negli anni. Le mie opere hanno sempre funzionato nei momenti di crisi; in quelli di boom la gente tende a guardare le cose di moda. Eppure il mio lavoro è sempre lì, è una costante presenza, non si esaurisce. Per questa ragione le gallerie che mi hanno sostenuto –la Galleria Arte Borgogna a Milano, e Onnasch a Colonia, New York e Berlino la ESSO Gallery a New York,– non erano “di grande moda”ma di sostanza. Lo stesso è accaduto con le istituzioni con cui ho lavorato: la Fondazione Mudima a Milano, , la Fondazione Giuliani a Roma, il Palais de Beaux Arts a Bruxelles, e il Centre d’Art Contemporain a Ginevra.Ora non si può più dire dal momento che il mio lavoro è sostenuto e rappresentato da Michael Werner di New York e Londra e VeneKlasen/Werner di Berlino

GC

In alcuni casi i veicoli si spogliano di qualsiasi componente; un atto che ne richiama la funzione.

GP

Diventano essenziali (Flight 1 (H.B.W.), 1995) e pura decorazione, sebbene l’ispirazione provenga sempre dalle macchine da corsa, con la striscia e la scacchiera. Ho anche realizzato elementi strutturali, perché mi piace evidenziare l’oggetto vuoto, con il suo telaio e i suoi tubi (516…1992-1993). Questa attenzione mi ha portato a mettere le barre a croce doppia sugli ultimi lavori, come per esempio in Build Seaplane (MC72)_4 (2010). Sono tubi traforati, simili alle strutture con cui si costruivano i telai degli aeroplani.. Inseriti in un dipinto, ne arricchiscono la qualità lineare e visuale. Sono linee aggettanti che corrispondono a quelle in superficie di dipinti come per esempio S.M. 55 Flight (1994).

GC

Negli anni Novanta, con la maturità artistica, arriva la libertà di esprimersi senza pensare alla critica o al mercato. Double Propeller Flight, 1 (H.B.W.) (1996) è quasi la fusoliera di un aeroplano senza ali.

GP

È un lavoro molto sintetico, quasi bidimensionale. Volevo prendermi questa libertà creativa, seppur inserendo elementi realistici come il timone e una griglia inox. Le due eliche sono frontali come se la scultura riflettesse la logica di Picasso cubista. È un oggetto molto grande, di circa 4 metri a muro. In quel periodo ho anche creato molte opere che mescolano diversi elementi del mio linguaggio; a volte la figura è quella di un aeromobile, altre è un insieme di strutture tubolari che formano una croce. Nel 2005 ho poi ideato delle nuove sculture orizzontali a muro, come Frontal 4_3 (Dull Violet_Blue MS) (2005-2006) che presentano un frontale, simile alla griglia di un radiatore un’automobile, e hanno un piccolo veicolo metallico, messo per traverso. I colori sono metallizzati opachi.

GC

Dal 2000 tendi a inglobare gli elementi del tuo viaggio estetico. La posizione delle cose transita da terra a pavimento e viceversa, si stabiliscono connessioni tra strutture tonde e quadrate, tra materie, legno e metallo, quasi che i lavori subiscano una forza magnetica che li attrae uno verso l’altro. Così l’elemento astratto dialoga con il figurativo. Le opere si offrono come esperienza globale. Ritornano i cavalletti e il telaio da corsa, come in Race 19 (V.F.H.T.) (1992-2006), che proprio nella sua datazione esemplifica questo “ponte” linguistico tra due periodi del tuo fare.

GP

Adesso i cavalletti sono di metallo; li realizzo in alluminio avvitato con una tecnica complessa. Sono verniciati e li fisso con viti in inox a vista, a testa cava esagonale, montate perfettamente a filo per vedere la meccanica. Il telaio è appoggiato ma ha delle punte che si inseriscono in specifici in fori, così da mantenere una conformazione esatta. Non si può muovere.

GC     

Questa tensione verso l’assoluto controllo del risultato mi spinge a leggere gli anni Duemila come territorio del sublime della tecnologia. Se guardo alle sculture di Jeff Koons, alle fotografie di Jeff Wall e ai film di Steve McQueen e di Sam Taylor-Johnson noto la stessa ossessione. Utilizzare un linguaggio industriale e altamente tecnologico per elaborare un racconto quasi disumano. È un’evoluzione verso un costruire caratterizzato da una de-soggettivazione totale, quasi una rinuncia alla personalità. In fondo il tuo percorso è quello di un ricercatore e di un progettista che riduce al massimo la sua espressività per affidarla a qualcosa di sublimemente perfetto, perché ottenuto attraverso una tecnica raffinatissima. La sensorialità che si espandeva mediante il corpo – dalla corrente Gutai alla Body Art – o attraverso la gestualità – dall’Action painting al Neoespressionismo – ora è affidata alle nuove macchine – dal computer alla super-stampante 3D –, tanto che un’intera generazione di artisti – da Christopher Wool a Wayde Guyton – ridefinisce l’identità dell’arte attraverso la positività tecnologica. Di fatto, la cultura occidentale ha integrato qualsiasi entità drammatica e tragica, lasciandola alle etnie non occidentali che stanno soffrendo guerre, repressioni e massacri, per concentrarsi sul genere “tecnologico”: l’oggetto perfetto è la nuova incarnazione umana. L’arte, così come è realizzata e prodotta, tende verso una dimensione astratta, leggera e quasi immateriale. Per questo la scelta del materiale e del suo trattamento si depura di ogni possibile errore. Diventa essa stessa il contenuto simbolico e immaginario del procedere artistico.

GP

Mi piace essere un tecnico al massimo livello. Quando innesto elementi diversi tra loro mi inserisco nella tradizione dell’arte – penso al Surrealismo – ma con una logica fondata su conoscenze meccaniche assolute.

GC

Partendo dal cavalletto o dal tavolo che diventano opera, oggi arrivi alla protesi da magazzino, che si fonde con l’oggetto appeso e mostrato, diventando un tutt’uno. È la manifestazione di una catena i montaggio “artistico” che ha creato una rete totale.

GP

Il cantilever nasce dal magazzino del mio studio, dove raccolgo le mie opere impacchettate. È una struttura simile ai cavalletti, dotata però di barrette su cui appendere o appoggiare gli oggetti. Funziona da scaffale e può essere usato da ambo le parti. Naturalmente l’ho trasformato facendo sabbiare e cromare il metallo. L’ho fatto con moduli standard, dunque posso svilupparlo all’infinito. All’interno di Cantilever Tech-Story, A1 (2007) ho immesso una barra, un veicolo verticale e il telaio e una serie di alette metalliche. Tutta la struttura è controllata da una numerazione fatta di buchi e di lettere, così è possibile montarlo in diversi modi; è catalogato A1 perché è stato il primo della serie. E’ una scultura, ma è anche la struttura di un quadro con il recto-verso e la composizione di elementi-immaguine. Un elemento autonomo che rappresenta i due momenti del mio fare.

GC

Oltre all’elemento strutturale si modifica anche il colore?

GP

Nella serie degli “Ailerons Sculpture”, che derivano dagli alettoni dell’aereo e di quelli delle Formula 1 moderne (Ailerons Alu_Sculpture MS (2 A. 2 RV. F. W.)_1, 2007-2008), li ho fatti in metallo lucidato. Lo stesso succede con i veicoli, come Alu Record Vehicle Prototype, I (2008), che sono di 106 cm.  Ho realizzato una mensola apposita con lamiera microforata, verniciata in argento opaco con una specie di depressione a rotaia per contenere stabilmente le ruote del veicolo e supporti inox.. Sono opere monocrome di metallo (anticorodal 6082) specchiante e dal carattere astratto.

GC

Nel 2010 utilizzi un motivo sempre presente ma mai visualizzato nella sua totalità: l’idrovolante.

GP

Per dieci anni sullo schermo del mio desktop c’è stata un’immagine molto sfumata di un idrovolante. Da qui l’idea di dipingerla in Build Seaplane (MC72)_1 (2010),. Il modello è un MC72 italiano a due eliche controrotanti. Ne ho ricavato prima il disegno da un libro disegnato da un tedesco naturalizzato americano, dove l’originale è in rosso (il colore da corsa dell’Italia). poi, attraverso vari passaggi, l’ho ridisegnato fino a farlo diventare monocromo. In seguito l’ho elaborato con Photoshop dandogli un carattere più soffice tramite il tratteggio e cercando di richiamare l’uso dei toni e le linee dei manifesti degli anni Trenta. Sono tratteggi molto pazienti con pennelli fini : nel primo che ho fatto la mano non era molto ferma: mi sentivo un po’ Giorgio Morandi Su questi dipinti agisco inserendo barre simili a quelle (alleggerite con fori circolari) con cui si costruiva la struttura  di questi idrovolanti. In questo caso il colore è argento metallizzato.

GC

Un ritorno alla tradizione pittorica?

GP

In un certo senso sì, perché la campitura monocroma è fatta a spruzzo o a rullo. Effettuo il ricalco dei disegni elaborati a computer e infine applico il tratteggio, cosa che mi fa sentire come un pittore tradizionale e “naif”. In alcuni casi il dipinto non è inquadrato da barre, in altri esse si sovrappongono, così che l’impatto comunicativo si trasferisca dalla pittura alla meccanica. In parallelo mi sto nuovamente interessando ai veicoli. In lavori come Nickel Frame Vehicle with Met. Cool Gray Triangle Tank and Wheels_Model 71 (2013) e Nickel Frame Vehicle with Aluminum Triangle Tank and Wheels_Model 71, I (2013-2014), ne ho ripreso l’immagine mutandone alcune parti e i materiali. Le ruote, per esempio, non hanno più i raggi, ma sono piene. Le gomme non esistono più, per cui faccio il tutto in resina e in metallo. È un richiamo alle ruote delle delle biciclette da corsa delle gare a cronimetro e a quelle dei veicoli da record di ogni epoca; è un modo per dare un’idea più moderna della velocità. Anche i cavalletti sono “aggiornati”; li realizzo con barre di alluminio microtraforato non lucidato.

GC

Il tuo lavoro più recente, M39_5_GP (2015), è il dipinto di un idrovolante, quasi una chiusura del cerchio, o meglio dell’ellisse, perché in esso si integrano le componenti monocromo-minimali enunciata dai due blocchi di colore viola metallico e azzurro opaco, e quelle figurative dell’iconografia industriale, di carattere storico, dell’idrovolante. Parlo di ellisse perché ha due centri – come la motocicletta ha due ruote – come il tuo lavoro, che in diverse occasioni ti porta a definire una scultura o un dipinto ovale. È un’immagine che contiene l’elasticità del tuo fare che ha la capacità di scissione, passando dal Minimal al Pop, dal manuale all’industriale. In questi decenni hai praticato un continuo slittamento tra queste polarità. Il tuo percorso è stato interpretato quale laterale, ma ti ha permesso di costituire una figura indipendente che si qualifica con la creazione di forme inedite e infinite, fuori della normatività autoritativa e linguistica del sistema corrente dell’arte.

© 2015, Germano Celant 


[1] (1) Bibliografia selezionata: Loredana Parmesani, “Oggettistica: dell’arte al reale”, in La Biennale di Venezia. XLV Esposizione Internazionale d’Arte. Punti cardinali dell’arte, a cura di Achille Bonito Oliva, catalogo della mostra, Edizioni La Biennale  di Venezia – Marsilio Editori, Venezia 1993, pp. 76-79; Saul Ostrow, “L’imprevista complessità di Gianni Piacentino”, in Gianni Piacentino, catalogo della mostra, testo di Saul Ostrow, Esso Gallery, New York; Paola Ugolini, “La Cosmogonia meccanica di Gianni Piacentino”, in Exibart.it, 17 febbraio 2014;

Andrea Bellini, “Mechanical cosmogonies”, in Gianni Piacentino, a cura di Andrea Bellini, pubblicato in occasione  delle mostre “Gianni  Piacentino”, Centre d’Art Contemporain Genève, Ginevra e Fondazione Giuliani, Roma, testi di Andrea Bellini, Laura Cherubini, Dan Cameron, Marc-Olivier Wahler, Christophe Kihm, Hans-Ulrich Obrist, JPR Rigier, Zurigo 2013, pp. 5-16;

Laura Cherubini, “Gianni  Piacentino: retrospettiva”, in  Flash Art, Milano, n. 312,  ottobre 2013;

Stefano Chiodi, “Gianni Piacentino,  Fondazione Giuliani, Rome, Italy”, in Frieze, Londra, n. 163, maggio 2014. Si rimanda per un approfondimento completo alla bibliografia del presente volume.

 

[2] (2) Serge Guibault, How New York Stole the Idea of Modern Art, The University of Chicago press, Chicago 1983.

 

[3] (3) Mario Perniola, La Società dei Simulacri, Capelli Editore, Bologna, 1980, pp. 131-134