GIANNI PIACENTINO Gregorio Botta Si può percepire il brivido della corsa stando completamente fermi? Si può sentire il rombo della camera a scoppio anche se il motore non c'è? Si possono vedere aerei sollevare l'ombra da terra anche se le eliche sono bloccate? Si, se si sta osservando un'opera di Gianni Piacentino, campione di velocità immobile. Intendiamoci: all'artista torinese (è nato a Coazze nel 1945 ) la velocità piace davvero. Ed è stato il suo amore per la moto (una magnifica Indian degli anni '30) a deviarne e segnare per sempre il percorso creativo. Era il 1968 quando l'acquistò. Fino ad allora Piacentino aveva esposto insieme al gruppo dell'Arte Povera - con qualche dissapore - opere minimal: pali, tavoli smisurati, portali che si aprono sul nulla, ellissi e inservibili leggii. Ma galeotta fu la Indian, e chi la restaurò: «Mi piaceva seguire i lavori - ha raccontato a Germano Celant - vedere i colori, così mi venne in mente di immettere anche i miei interessi e la mia passione nella mia arte - tra gioco e mania, attenzione e attrazione per l'estetica industriale e per il design - che includeva anche l'idea di possedere e guidare una motocicletta. Cominciai a fare modellini segando parti di macchinine...». Quei piccoli oggetti di 20 centimetri contengono, in nuce, tutto il Piacentino degli anni a venire. Da quel giorno i suoi oggetti minimal si trasformano- prendono forme aerodinamiche, si vestono di fregi e modanature, acquistano ruote ed eliche, mettono le ali. E si capisce perché un casco integrale sospeso in equilibrio precario ad una sbarra orizzontale sia diventato il suo autoritratto. Giustamente quest'opera apre la grande personale che gli ha dedicato la Fondazione Prada (a cura di Germano Celant, fino al 10 gennaio), allestendogli uno spazio mosso da vertiginosi angoli acuti.Non è un caso. Acuto è la definizione giusta per Piacentino: qui ogni cosa è lunga e sottile, ogni scultura è una fusoliera disegnata per tagliare meglio un vento immaginario. Lo sono le barre (chiamate Race, o Flight o Wing) appese alle pareti che evocano la forma di uno smisurato sci da kilometro lanciato, arricchito da una piccola elica, da una coda di aereo, da una decorazione un po' vintage, Lo sono i veicoli che giacciono a terra: bicicli e tricicli bassissimi, come le auto disegnate per battere i record di velocità, con carenature estreme e ruote perfettamente cromate. Ecco, le cromature. E il nichel, e le ramature, e le vernici metallizzate, e le carte marmorizzate e le tinte alla nitro e madreper-late. Il colore è un'altra delle ossessioni di Piacentino; può apparire un semplice smalto industriale, ma è invece il frutto di mescole - sempre diverse - accuratamente scelte dall'artista. E infatti nel titolo delle sue opere il colore è sempre citato: blu-chiaro perla, viola-grigio, rosa-crema, amaranto-scuro e cosi via. (Per ognuna di esse l'artista conserva una scheda e una campione destinato all'eventuale restauro). Piacentino è, l'avrete capito, un artista metodico. Non è uno di quelli che fa uno schizzo di una scultura e poi la fa realizzare agli assistenti, o peggio, in outsourcing. No, lui appartiene all'eletta schiera di coloro che sanno come si fa: da ragazzo ha lavorato in una coloreria specializzata scoprendo possibilità sconosciute, e dopo ha cominciato a frequentare ebanisti, tornitori, fonditori e naturalmente le officine legate al mondo delle auto e delle moto; un'iniziazione a quella aristocrazia di altissimo artigianato che nel Piemonte della Fiat era molto radicato. Le sue macchine godono di quell'aura: ai distratti e ai profani possono apparire prodotti usciti dalla fabbrica. Ma gli esperti capiscono quanta carta smeriglio e quante mani di vernice a spruzzo ci siano dietro la lucida perfezione che brilla nel suo garage ermetico. « La mia idea è che l'opera possa essere confondibile con qualcosa di reale», ha detto Piacentino. E dunque il rimprovero di creare oggetti che sembrano design probabilmente l'ha preso come un complimento. A prima vista le sue sculture sono immerse in una luce fredda. Ma il gelo da oggetto industriale è solo apparente: Lo contraddice quell'aria retrò, quella nostalgia di un futuro già passato di cui è impregnata la sua cifra stilistica. La stessa che emana dai quadri dedicati all'epopea dei fratelli Wright e degli idrovolanti, la stessa impressa nei loghi con le sue iniziali "GP" e i fregi stile Impero o Novecento riprodotti come un marchio di fabbrica su ogni scultura al posto della firma. "Artigiano inutile" si definisce Piacentino: e se ci pensate è un bel binomio per descrivere un artista. Ma la precisione che mette nel costruire non è solo frutto di una mania: l'estetica della tecnica ha uno scopo. Solo se sono perfette le sue macchine celibi possono sublimarsi nella nitidezza del disegno, possono assumere la loro vera natura, che è mentale, possono entrare nel paesaggio dell'assoluto. Sono automobili platoniche, corrono nel mondo delle idee.
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