PIACENTINO

Gli ultimi miti della velocità

In una grande mostra alla Fondazione Prada di Milano, le raffi­nate, immobili e perfette "macchine inutili" dell'artista torinese

di  Francesco Poli

Dal 5 novembre al 10 gennaio 2016, la Fondazione Prada, nello spazio del Podium, ospita un'importante retro­spettiva dell'opera di Gianni Piacenti­no (Torino, 1945), curata da Germano Celant. Tra i protagonisti della straor­dinaria stagione dell'arte contempora­nea a Torino degli anni Sessanta, in un certo senso la sua singolare traiettoria di ricerca, più che essere legata all'Arte povera, di cui Piacentino è stato tra i primi esponenti, sembra piuttosto aver tratto ispirazione e fondamentali suggestioni da un altro genere di produzione creativa torinese: quella della grande tradizione progettuale e artigianale dei carrozzieri, come Pininfarina, Bertone, Ghia e poi Giugiaro. Di questi "coachbuilder" si potevano vedere allora, insieme alle auto di serie delle grandi case, i modelli e i prototipi al Salone dell'Automobile, un evento meraviglioso in particolare per i ragazzi. Piacentino fin da piccolo ama i veicoli, le loro forme ed è un collezionista maniacale di modellini sia di auto che di moto. Motociclista appassionato, gareggia anche, negli anni Settanta, come secondo in competizioni di sidecar.

La stessa passione, unita a un'innata attitudine per il lavoro artigianale accurato e raffinato, lo spinge da un lato a una specializzazione estrema nell'elaborazione dei colori e nelle tecniche di verniciatura (da carrozziere provetto) dei suoi artefatti che, dal 1969 in poi, si trasformano anche in prototipi di veicoli rigorosi e fantasiosi, esteticamente affascinanti ma assolutamente non funzionali. L'artista ci tiene molto a sottolineare l'importanza degli aspetti più concreti della sua ricerca: il suo perfezionismo operativo e il piacere legato al rapporto fisico con i materiali. In polemica con quegli artisti che si fanno fare le opere da altri, dice Piacentino in un dialogo con il critico svizzero Hans-Ulrich Obrist: «Io ho sempre pensato che devi lavorare per creare arte. Devi sudare. Io ho bisogno di mantenere il controllo sulla realtà materiale del lavoro, soprattutto perché amo lucidare e dipingere superfici metalliche, come un carrozziere». Grande è anche il peso che attribuisce alla sua vocazione motociclistica e alla sua attività collezionistica, che non è solo un divertimento, ma anche una vera fonte di stimolo artistico. Oltre alla collezione di modellini di veicoli, c'è anche quella di francobolli, un'eccezionale raccolta, in oltre trenta classificatori, di esemplari di tutti i Paesi con immagini relative al tema del volo, da Icaro e Pagaso fino agli aerei della Seconda guerra mondiale. È dai francobolli che sono nati i suoi lavori con eliche e riferimenti ai fratelli Wright (dal 1972).

GLI ESORDI. Naturalmente tutto ciò va inquadrato dal punto di vista specifico della sua ricerca artistica a partire dalla formazione e dalle sue iniziali esperienze espositive. Le prime prove pittoriche sono legate al suo interesse per artisti come Paul Klee e Mirò, ma ben presto si rende conto che l'arte più attuale si sta sviluppando nel contesto internazionale verso ben altre direzioni, negli Stati Uniti con la Pop art e la Minimal art. All'università studia per due anni filosofia. A Torino frequenta le gallerie di punta di allora, quelle di Luciano Pistoi (Notizie) e di Gian Enzo Sperone, e gli artisti della nascente Arte povera. Grazie in particolare a Michelangelo Pistoletto, Piacentino propone la sua prima personale da Sperone nel 1966, e nel 1968 è presente alla mostra Arte povera alla galleria de' Foscherari a Bologna. I lavori di questa fase sono elementi freddamente minimalisti, delle barre semplici o incrociate installate a muro o al suolo, delle strutture triangolari e dei tavoli; lavori anche di grandi misure ricoperti da accurati strati di vernici con colori freddi e toni particolarmente raffinati (violetto, amaranto, porpora, grigio). Nel 1968, al Deposito d'Arte Presente, uno spazio autogestito torinese nato un anno prima, dopo una discussione accesa sulla collocazione delle sue opere (considerate troppo minimal e "ingombranti"), Piacentino abbandona il gruppo. L'artista ricorda così (nel dialogo con Obrist) quella rottura che gli costò anni dì emarginazione: «Allora ho detto: "Andate al diavolo tutti". E ho portato via i miei lavori. Non ne volevo più sapere di tutta quella situazione. Era un rischio per la mia carriera, ma alla fine mi ha portato fortuna». Ed è proprio a causa di questo momento difficile che l'artista interrompe per un po' il lavoro e si mette a restaurare una vecchia moto Indian del 1930. E di lì parte la svolta: «Mentre la stavo restaurando, ho avuto un'epifania. Ho deciso che volevo mettere tutta la mia vita e tutta la mia passione dentro il mio lavoro. Fino ad allora avevo avuto la sensazione di aver fatto un lavoro in qualche misura accademico, legato alla storia dell'arte come sviluppo e invenzione di nuovi stili. Così mi sono detto: "Perché non fare altre cose?". Ed è in questo modo che sono apparsi i primi prototipi, modelli di veicoli, ali».

UNA NUOVA IDEA DI PROTOTIPO. La prima serie di la­vori, del 1969, è formata da una ventina di piccoli modelli di veicoli, pensati però per essere realizzati in scala molto più grande. Queste sculture vengono acquistate dal gallerista Reinhard Onnasch di Colonia, con cui l'artista lavora per molti anni. Si tratta di prototipi realizzati in metallo, verniciati a fuoco con smalti industriali (ma cromaticamente molto speciali), e rifiniti con assoluta cura, articolate "macchine inutili" o fregi e rilievi da parete che stanno tra la scultura e il design. Con forme estremamente essenziali ed eleganti, questi lavori, nelle loro diverse variazioni plastiche e strutturali, fanno riferimento a connotazioni estetiche che vanno da quelle old fashioned delle prime auto da corsa a quelle più moderne (anche per esempio l'ormai mitico Bluebird progettato da Donald M. Campbell, costruito per il record di velocità), dalle fragili strutture del primo velivolo dei Wright agli aerei delle due guerre mondiali, dalle rifiniture cromatiche dei serbatoi delle vecchie moto alle modulazioni dell'Art déco. Il gusto decorativo con valenze estetizzanti viene enfatizzato da colorì antipop (come l'amaranto, il blu-grigio, grigio perla e altre tonalità metallizzate) e dall'uso di linee e dettagli d'oro, argento, nichel, cromo. Il tutto sempre comunque trattenuto dalla freddezza minimalista oggettuale delle opere. I veicoli di Piacentino sono, per così dire, monumenti immobili alla velocità, all'aerodinamicità, al mito e al fascino delle macchine con cui l'uomo ha sempre tentato di andare al di là dei propri limiti, verso un'utopica dimensione di libertà. Sono simboli di modernità, ma in una visione nostalgica di questo mito novecentesco: lavori caratterizzati da una sorta di pathos che ha notevoli valenze postmoderne, e per questo opposti alla freddezza modernista dei minimalisti alla Donald Judd e dunque quanto mai attuali. Così si spiega la grande rivalutazione dell'arte di Piacentino.